Enciclopedia giuridica del praticante

 

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Esperienze professionali 

Tratto da "La procedura penale ragionata e praticata"

1. In difesa di MU

Il mio incontro (professionale) con Mu (questo é il nome fittizio con cui difenderò l’anonimato del mio cliente) risale a una afosa giornata di metà agosto 2001. Mu mi telefona: “Avvocato, ho bisogno di Lei!” “Perché?” “Perché mi trovavo tranquillamente sdraiato sulla spiaggia di Puntavagno, quando mi si è avvicinato un vigile, che mi ha fatto un Verbale”. Ho già capito di che si tratta: la spiaggia di Puntavagno è un noto ritrovo di omosessuali, in cui ogni tanto i Vigili fanno delle “puntate” a tutela del buon costume: individuano chi si abbandona ad atti osceni e lo denunciano per il reato di cui all’art. 527 C.P.: evidentemente il mio interlocutore é uno dei “pizzicati”.

All’appuntamento che gli fisso, Mu mi esibisce il “verbale” fattogli e ciò mi conferma nella mia “diagnosi”. Temo che il caso non lasci molto spazio ad una speranza di assoluzione. Ma é anche vero che il tipo di clienti come Mu si preoccupano soprattutto di una cosa: che mogli e figli nulla vengano a sapere della loro disavventura giudiziaria. Di conseguenza, rassicuro Mu che considererò mio principale compito tutelare la sua riservatezza e gli spiego che, a tal fine, la prima cosa da fare é una “elezione di domicilio” presso il mio studio. Tremebondo e grato delle mie rassicurazioni, Mu senza difficoltà mi sottoscrive l’elezione di domicilio con contestuale nomina di fiducia.

A questo punto, io dovrei portare l’atto (id est, la nomina con “elezione di domicilio”) alla segreteria della Procura della Repubblica (questa è infatti la “autorità che procede” — v. art. 162 co.1). Calma, però: non si può mica depositare un atto relativo ad un procedimento quando questo non è ancora iniziato! Ora, perché il procedimento contro il mio amico Mu inizi, occorre che esso venga iscritto nel registro ad hoc (il “registro degli indagati” — vedi art. 335 c.p.p.) e, ancor prima, occorre che alla Procura della Repubblica arrivi la “notizia di reato”. Bisogna dar tempo al tempo e lasciar passare qualche giorno. Passato che è, mi reco alla Procura e precisamente all’ "Ufficio ruolo generale”, per chiedere appunto se la pratica é già iscritta ed, in caso, chi è il magistrato assegnato.

Operazione semplicissima, penserà lo studioso; non del tutto, in realtà. Non bisogna, infatti, pensare che l’avvocato, giunto alla presenza del funzionario (di solito situato al di là di uno sportello e davanti a un computer), gli possa chiedere oralmente e molto semplicemente “Mi può dire se risulta una denuncia contro Bianchi, ecc. ecc.?”; e che il funzionario, altrettanto semplicemente, oralmente, risponda. Nulla di tutto questo. E ciò per la semplicissima ragione che competente a decidere, se dar risposta o no, alle richieste sul contenuto del registro, non è il segretario della Procura (e per lui, l’addetto allo sportello) ma il magistrato: infatti, non tutti hanno diritto alle informazioni (si legga lo studioso il co.3 dell'art. 335) e stabilire chi ha tale diritto può presentare delle difficoltà giuridiche (che è meglio risolva un magistrato e non un segretario ancorché bravo) e, a parte ciò, il magistrato (V. co. 4 sempre art. 335) potrebbe ritenere opportuno secretare il contenuto del registro. Per farla in breve, l’avvocato che vuole informazioni sul registro deve compilare una richiesta scritta, deve presentarla (naturalmente al funzionario dietro lo sportello) e poi con santa pazienza ritornare dopo qualche giorno. Lo faccio; e vengo a sapere il nome del “sostituto procuratore” (diamogli un nome, dott. Ile) e, naturalmente, il numero di ruolo generale1.

Ho fatto con ciò il primo passo; ora bisogna che muova il secondo: ma in che direzione? Chiedere il patteggiamento (art. 444 C.P.P.): ecco la prima mossa che debbo fare. Si, ma chiederlo dopo aver visto cosa ha scritto il vigile nella “notizia di reato” da lui comunicata alla procura della Repubblica: in fondo il cliente si professa innocente: d’accordo, lo fanno tutti, ma non è detto che alcune volte non lo facciano con ragione. Però, al momento, io, difensore, di leggere questo atto non ho diritto: per l’art. 329 c.p.p. il fascicolo del P.M. è coperto dal segreto istruttorio. Allora? Allora tentar non nuoce: busserò alla porta del P.M. con un pretesto (quale? uno qualsiasi, forse che il difensore non ha diritto di parlare col P.M.?)2 e, se vedrò che il mio interlocutore è “disponibile”, gli chiederò di farmi leggere il verbale in camera caritatis.

Il P.M. però “disponibile” non lo e per nulla; e io batto in ritirata con le pive nel sacco. Esacerbato e con la voglia di “vincerla a tutti i costi”, penso di presentarmi al P.M. con l’indagato per “rispondere spontaneamente all’interrogatorio”: forse che in tale sede il P.M. non deve “render noti” alla “persona sottoposta alle indagini” “gli elementi di prova esistenti contro di lei?” Certo, lo dice chiaramente l’art. 65 c.p.p.! Sono ridiventato euforico e ho riacquistata la fiducia in me stesso, ma un residuo di prudenza e di buon senso mi consiglia di controllare il codice. Leggo l’art. 374 c.p.p. ed il morale toma ai piani bassi: si, tale articolo prevede una “presentazione spontanea” dell’indagato, ma solo al fine di “rilasciare dichiarazioni”. Certo, nell’occasione il P.M. può sottoporre l’indagato all’interrogatorio, ma solo se lo crede opportuno (e tale non lo crederà quando appunto riterrà che la contestazione degli elementi di accusa venga a nuocere alle indagini).

Insomma, debbo rassegnarmi e aspettare: che cosa? Ma che diamine, il deposito degli atti di cui all’articolo 415 bis c.p.p.: il nostro saggio legislatore si è reso conto che è giusto che il difensore possa influire sulle decisioni che il P.M. deve prendere a conclusione delle sue indagini e, siccome per poter influire su tali decisioni il difensore deve naturalmente conoscere gli atti (uno che parla senza “cognizione di causa” riesce ad avere sul suo interlocutore ben poca influenza!), il legislatore impone al P.M. di depositare presso la propria segreteria, prima della scadenza a lui fissata (dall’art. 405 c.p.p.) per la conclusione delle indagini, “la documentazione relativa alle indagini espletate” (V. art. 415 bis). Quindi, per leggermi la famosa notitia criminis dei Vigili (che incastra il povero Mu) non mi resta che aspettare tranquillamente che il P.M. concluda le indagini.

Cosi faccio; e cosi commetto il terzo dei miei errori professionali (fortunatamente, lo dico subito a parziale sollievo del lettore, ormai in forte apprensione per le sorti del povero Mu, tutti questi errori, per uno strano gioco del destino, si risolsero a favore dell’indagato). Perché commetto un errore? Perché l’articolo 415 bis viene interpretato come se stabilisse l’obbligo del deposito della documentazione solo in caso che il P.M. intenda fare la richiesta di rinvio a giudizio (di cui al succ. art. 416): nel caso, invece, che ritenga fare richiesta di giudizio immediato (art. 453 c.p.p.) o di decreto penale di condanna (art. 459 c.p.p.) egli (secondo tale discutibile interpretazione), a tale richiesta, potrebbe dar corso senza nessun deposito e senza dar modo alla difesa di far presenti le ragioni (v. co. 3 art. 415 bis) per cui ritiene ingiusta la promozione dell’azione penale contro l’indagato (che verrebbe cosi trasformato in imputato — v. art 60 c.p.p.). Forse una giustificazione a tale interpretazione la si può trovare, per il giudizio immediato, nell’evidenza della prova che ne costituisce il presupposto (vedi l’incipit dell’art 453); ma per il decreto penale? Esso può essere richiesto anche quando la prova non è “evidente” (leggersi l’art. 459!); e, se e vero che l’imputato, una volta ricevuto il decreto, può farvi opposizione, è anche vero che, in questa sede, l’imputato non può chiedere che il P.M. ci ripensi e non promuova l’azione penale, in altre parole non può sollecitare il P.M. a chiedere l’archiviazione: può chiedere solo “il giudizio (immediato!) e il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena a norma dell’art.444 c.p.p. (v. co.3 art. 461). E allora? Allora de hac jurisprudentia utimur et... patientia!

Lasciamo il nostro latino maccheronico e continuiamo a narrare i fatti: il fatto, anzi il fattaccio, è che il P.M., seguendo tale giurisprudenza, provocò, senza permettere alla difesa di dire né ai né bai, un bel decreto penale e fu..... una fortuna per l’imputato. Perché una “fortuna”, si domanderà sbalordito il giovane collega, non era meglio un “patteggiamento”? No, perché, può sembrare strano (e forse lo è, strano ed ingiusto), ma per il co.2 art. 459, su richiesta del p.m. (e solo su sua richiesta – ma il dottor Ile, ancorché da me ripetutamente demonizzato, fece, a favore del Mu, tale richiesta) il G.I.P. può, nel suo decreto, riudrre la pena in mggior misura di quanto si possa riudrla nel contesto di un “patteggiamento” (v. co. 1 art. 444).Quindi se il progetto della difesa (il “mio” progetto difensivo, non voglio nascondermi dietro un vile anonimato!) avesse avuto esito positivo ed il patteggiamento, pertanto, si fosse fatto, l’imputato, sia pur di poco, ci avrebbe rimesso. Capita.

Ah la giustizia umana! Sbaglia il difensore, sbaglia il giudice: una macchina infernale per rendere nero il bianco e bianco il nero, Comunque in questo caso è andata bene all’imputato; ed io, molto giudiziosamente, mi astengo dallo (ulteriore) errore di fare opposizione al procedimento per decreto, anche se ora fingerò che (preso da improvvisa pazzia) abbia deciso di fare opposizione. In tal caso che cosa avrei dovuto fare? Prima cosa, avrei dovuto redigere l’atto di opposizione (mettendoci tutti gli elementi pretesi dall’art. 461 c.p.p.— e in ciò sarei stato agevolato da un modulo che la previdente Autorità Giudiziaria è usa predisporre). L’ atto così redatto l’avrei dovuto portare nella cancelleria del GIP (quella stessa che aveva curata la notifica del decreto). E poi? Poi, se avessi chiesto il giudizio immediato (se avessi chiesto un rito alternativo la faccenda sarebbe un po’ più complicata e ci riserviamo di parlarne in altra sede) non avrei avuto che da aspettare che mi arrivasse il decreto di citazione davanti (non al GIP, ma) al tribunale.

2. In difesa di Be

I miei rapporti con il sig. Be, accusato di atti osceni in luogo pubblico, furono fin dall’inizio caratterizzati dalla più assoluta incomunicabilità. Non colpa mia, né colpa sua: semplicemente il sig. Be era affetto da un grave disturbo del linguaggio diagnosticato come “afasia fluente”: parlava proferendo le parole giuste, ma mettendole in ordine sbagliato. Ad esempio, per dire “Ieri, avvocato, le ho telefonato”, diceva presso a poco “Telefonato ho ieri le avvocato”.

Certo, questo handicap dell’indagato menomava gravemente la difesa, ma certamente la sospensione del processo non era né opportuna (dato che il cliente, terrorizzato dal processo, non voleva altro che finisse al più presto), né possibile. Non era possibile, infatti, applicare gli artt. 70 ss. c.p.p.., in quanto essi prevedono, sì, il caso che l’imputato sia affetto da “infermità mentale”, ma ne fanno conseguire la sospensione del processo solo quando la “infermità” è tale da “impedire la cosciente partecipazione al procedimento”. Ora, invece, quella del Be era, sì, certamente, una “infermità mentale”, ma non tale da impedirgli la comprensione degli atti che si svolgevano nel procedimento (e quindi la sua “cosciente partecipazione” a questo).

Semmai, se un articolo del codice era al caso applicabile (analogicamente) esso era l’articolo 119 c.p.p., nella parte relativa al “muto”. Però questo era un articolo che sarebbe venuto in rilievo nel futuro svolgersi del procedimento, nel caso di un interrogatorio del Be da parte dell’Autorità Giudiziaria, ma che al momento non poteva risolvermi il problema (della incomunicabilità tra me e Be). Per risolverlo avrei dovuto farmi assistere da un esperto (e la spesa che ciò avrebbe comportato era sproporzionata rispetto alla natura bagatellare del reato) o farmi dare delle risposte per iscritto (ciò che superava la pazienza del Be, che era un tipo un po’ nervosetto, e debbo confessarlo, anche la mia).

Non potendo, quindi, attingere dal cliente la “verità dei fatti” (tanto per usare una parola grossa e che si trova a disagio nel processo penale) decisi di cavarla dal fascicolo di ufficio. Ma l’unico che poteva autorizzarmi (in camera caritatis) a dargli un’occhiata era il P.M.: lo stesso P.M., formalista e severo, che abbiamo già incontrato nel precedente paragrafo, il dottor Ile. E il terribile dott. Ile (proprio come nella vicenda esposta nel precedente paragrafo) mi fece uscire dalla sua stanza con le pive nel sacco: non è detto che avesse tutti i torti. Decisi, comunque, di rappresentargli la infermità mentale dell’indagato, in quanto mi pareva che essa avrebbe potuto portare il P.M. ad una più attenta valutazione del racconto del vigile verbalizzante (forse che non poteva essere accaduto che questi prendesse, un gesto disordinato dovuto all’infermità di mente, come un atto osceno?).

Scrissi, dunque, due o tre righe in tal senso e le depositai in cancelleria: a questo, almeno, avevo diritto: l’art. 367 c.p.p. sul punto è ben chiaro!

Il risultato? Nefasto: il P.M. fu, sì, pungolato ad un maggior scrupolo nell’indagine, ma tale maggior scrupolo si manifestò solo nel soprassedere all’emissione del decreto penale (che, come abbiamo visto nel precedente paragrafo, presenta dei vantaggi per l’imputato) ed a disporre il deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p. e l’interrogatorio dell’imputato (non a opera sua, ma della polizia).

Ora, rispondere ad un interrogatorio a te, imputato, serve come mezzo per ottenere dall’Autorità Giudiziaria procedente la contestazione (e quindi la rivelazione) degli elementi su cui l’accusa è fondata; ma quando tu hai a disposizione tutti gli atti dell’Ufficio e da essi puoi comodamente ricavare gli elementi dell’accusa, perché dovresti andare a perdere tempo per rispondere a delle domande ovvie (“E’ vero che il giorno tal dei tali lei si è masturbato?”). Si dirà: “Ma in sede di interrogatorio, tu, indagato, puoi esporre la tua tesi difensiva, puoi dedurre delle prove”. Ma sì, questo è vero, però è anche vero che la tesi difensiva, la puoi dedurre anche in una memoria (e più chiaramente, che in sede di interrogatorio). Lo so che mi si può obiettare che quando si deposita una memoria non si sa mai di quale attenzione il giudice la onorerà, mentre invece l’esposizione orale della tesi difensiva fatta durante l’interrogatorio, il giudice, bon grè mal grè, è costretto ad ascoltarla. Questo è vero, è tutto vero e sono il primo a dire che in sede di interrogatorio un abile difensore ha modo, con sapienti interventi, di inculcare e di far, per così dire, a poco a poco assorbire dal magistrato la propria tesi (quella sua tesi che potrebbe essere letta con disattenzione se scritta in una memoria); però tutto questo se l’interrogatorio è fatto dal magistrato e non da un pubblico ufficiale da lui delegato!

Ecco le ragioni per cui all’interrogatorio davanti al p.u. non ritenni di andare e di far andare il mio assistito. Tanto più, che la Notizia di reato”, che finalmente ero riuscito a leggere, era tanto chiara e circostanziata nell’accusa, da farmi escludere l’ipotesi che il p.u. avesse equivocato sulla natura dei gesti compiuti dal mio cliente: gli atti osceni senza dubbio erano stati compiuti.

A questo punto, che fare? Sollecitare il P.M. a chiedere un decreto penale? Nulla ostava a che il P.M. avanzasse una tale richiesta. E sarebbe stata la soluzione migliore per il mio cliente. Però, nell’avviso di deposito, il p.m. aveva avanzata una proposta di patteggiamento: era tale proposta ostativa alla richiesta del decreto penale (da parte del P.M.)? Io ero propenso a dire di no. Diverso il caso di un P.M., che avesse chiesto il rinvio a giudizio o il giudizio immediato: in tali casi, sì, che avrei ritenuto sussistere un ostacolo alla richiesta del decreto, perché in tali casi il P.M. si sarebbe spogliato, con la sua richiesta, dell’azione penale: la palla non sarebbe stata più nelle sue mani, ma nelle mani di un altro giudice a cui egli non avrebbe potuto più toglierla; ma, nel caso di proposta di patteggiamento, perché impedire ad un magistrato un ripensamento? egli aveva, sì, proposto un patteggiamento, metti, per sei mesi, ci aveva ripensato e aveva chiesta una condanna per decreto a soli cinque mesi: perché non sarebbe dovuto essere possibile? Si, nulla lo rendeva impossibile, salvo il carattere un po’ testardo del P.M.: certamente egli non avrebbe cambiata idea. E allora inutile perdere tempo; e così decisi di aderire alla sua richiesta.

Dunque, faccio il mio atto di adesione, vi allego l’avviso ex art. 415 c.p.p. (contenente la proposta del P.M.) e mi dirigo all’ufficio del GIP. Sì, ma a quale GIP presento l’atto (dato che l’organico dell’ufficio è composto da più magistrati)? Penso di chiedere lumi proprio alla segretaria del dott. Ile, che (al contrario di lui) avevo trovato così gentile e disponibile; e ciò mi evita una brutta figura. Infatti, la segretaria gentilmente mi spiega che, no, l’istanza non la dovevo presentare dal GIP, ma dal P.M., in pratica proprio da lei: sarà poi il P.M., una volta apposto il suo visto per adesione (ed infatti il mio atto avrebbe dovuto assumere la forma di una comune richiesta di patteggiamento), a far trasmettere gli atti al GIP. La cosa mi pare strana (ed in effetti un po’ strana e contorta lo era), ma obbedisco.

Dopo qualche giorno, faccio un salto all’ufficio ruolo del GIP e lì apprendo che tutto procede bene: il GIP è stato nominato ed io non ho che da aspettare di essere avvisato (guardi lo studioso il co.1 dell’art. 127 c.p.p.) dell’udienza fissata. Così avviene: ricevo l’avviso che l’udienza è fissata per il giorno 06.12.00. Presentarsi? Di solito non ci si presenta. Ma per me, il sei, è un giorno quasi vuoto (di impegni) ed il cliente è uno di quelli che dall’avvocato pretendono il massimo, quindi il giorno sei mi trovo impalato davanti alla porta del dottor Giaca (il GIP incaricato). Aspetto che esca chi mi precedeva nel turno, busso, entro e mi presento: “Difendo il sig. Be, per cui vi è una richiesta di patteggiamento”. Il giudice è gentile: mi assicura che “tutto è a posto”. Il P.M., naturalmente, non c’è: la sua partecipazione all’udienza è facoltativa (veda lo studioso l’art. 447 co.3 c.p.p.) ed egli ha cose più importanti da fare che assistere ad un’udienza “su richiesta di patteggiamento”. Io mi limito ad azzardare: “Quando ci sarà la sentenza?” “Subito – risponde il giudice – ma se vuole averne copia deve aspettare fino a domani, dato che io materialmente, subito, non riesco a scriverla”.

3. In difesa di Sai

Sai, colto dalla Polizia mentre acquistava dell’eroina da due connazionali, era stato arrestato.

C’era la flagranza (art. 382 c.p.p.), il reato era addirittura di quelli che rendono obbligatorio l’arresto (V. melius, art. 380 co.2 lett. H, c.p.p.): nulla da eccepire, giustamente le manette erano scattate ai polsi del povero Sai. Il quale, da povero diavolo qual era, all’udienza di convalida aveva adottata la tesi difensiva più balorda: “Non era vero che stava acquistando la droga dai connazionali... la droga l’aveva, sì, ma perché era stata da lui presa sotto una pietra dei giardinetti, dove l’aveva precedentemente nascosta, ecc. ecc.”: tant’è, la paura fa novanta, e la paura di Sai era evidentemente che, se mai avesse detto che i suoi connazionali (diventati come lui coimputati di spaccio) gli avevano venduta la droga e avesse contrastato così la loro tesi, che era di assoluta estraneità al fatto, essi gli avrebbero (per lo meno!) rotta la testa.

Naturalmente a Sai nessuno crede: l’arresto viene convalidato, viene disposta la misura della custodia in carcere3. Fino a qui, si ripete, nulla da eccepire.

Poi, succede il fattaccio: il GIP emette un decreto di citazione per il giudizio immediato4. La cosa è di per sé corretta: nessuno potrebbe contestare che, nel caso in esame, la prova del fatto “appaia evidente” ed in più l’imputato è stato interrogato: sussistono, quindi, entrambi i presupposti voluti dall’art. 453 c.p.p. per fare a meno del “filtro” dell’udienza preliminare, che, nel caso, si rivelerebbe, per il nostro ordinamento, un’inutile e formalistica garanzia, ossia un’assurda perdita di tempo. Allora, si domanderà il lettore, dov’è il “fattaccio”?

Il “fattaccio” sta in questo: che il Sai, ricevuta la notifica del decreto di citazione, lo guarda un po’, vede che l’udienza è stata fissata per il 7 maggio e, da ciò tranquillizzato, lo mette da parte: c’è tempo per parlarne quando verrà il difensore, che ora è all’estero, ma a metà marzo ritornerà in Italia e si farà vivo in carcere! Non fa caso, il povero Sai, che qualcosa di francese sa, ma d’italiano ne mastica davvero poco, all’avviso (contenuto nel decreto in ossequio al co.2 art.456) - avviso scritto in chiare lettere (però in lettere italiane, questo è il punto) ch'egli può chiedere “il giudizio abbreviato ovvero l'applicazione della pena a norma dell'art. 444 c.p.p.” - però, ecco il punto, li può chiedere in termine brevissimo, quello stabilito dall'art. 4585. E quindi, ahimè! tale termine si lascia scadere. Ma — domanderà il lettore — il difensore che ci stava a fare, non poteva provvedere lui a richiamare l’attenzione del Sai sulla necessità di chiedere, e tempestivamente, questo o quel rito alternativo? No, perché, come si è detto, il difensore era all’estero: se fosse stato in Italia, quasi certamente avrebbe fatto visita a Sai in carcere (ogni penalista che si rispetti cerca di recarsi almeno una volta alla settimana a far visita in carcere ai suoi assistiti): il Sai gli avrebbe mostrato l’atto notificatogli ed egli gli avrebbe allora fatto presente ecc. ecc. e tutto si sarebbe risolto per il meglio. Ed invece era all’estero.

Se almeno l’avviso (l’avviso di cui parla il 5° co art. 456 — lo studioso apra il codice e legga!) gli fosse stato notificato entro il termine concesso all’imputato, chissà, forse qualcuno dello Studio avrebbe trovato modo di porre sull’avviso il Sai, di suggerirgli di chiedere il rito alternativo; invece l’avviso al difensore era stato notificato quando il termine era già scaduto. Che fare allora? C’era poco da scegliere: l’unica cosa da fare era quella di domandare la restituzione in termini (art. 175 c.p.p.): motivo? Il non aver potuto osservare il termine (indicato, nel decreto, per chiedere l’abbreviato ecc.), a causa di forza maggiore. Motivo della “forza maggiore”? L’ignoranza della lingua italiana.

Ed era un motivo ben fondato, anzi sacrosanto: perché, sì, è vero, all’imputato “che non conosce la lingua italiana” si nomina un interprete (arg. ex art. 143 co. 2 c.p.p.), affinché lo “assista gratuitamente” “al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa”, ma in pratica tale assistenza si dimostra reale ed efficace solo al momento dell’interrogatorio dell’imputato: quale mai interprete, infatti, si preoccupa di ragguagliare dettagliatamente l’imputato di quel che all’udienza avviene e si dice attorno a lui (di quel che dice il teste tal dei tali, il p.m., il giudice, il difensore...) in modo da permettergli di seguire effettivamente lo svolgimento del processo? Quale mai imputato osa disturbare (fuori d’udienza) l’interprete per farsi tradurre le varie “carte processuali” che gli vengono notificate? Ve lo immaginate lo sbigottimento delle guardie del carcere a cui Sai dice di chiamargli e con urgenza l’interprete? E la faccia dell’interprete che deve perder tempo per recarsi in carcere, e perché mai? per tradurre un decreto di citazione a un certo Sai! Nessuno ha mai vista una simile faccia, per la semplice ragione che nessuna guardia mai si è sognata di chiamare un interprete in accoglimento della richiesta di un detenuto, e nessun detenuto ha mai osato fare una tale “stramba” richiesta.

In carcere ci si arrangia: l’interprete lo fa un compagno di cella bilingue, ma se ne ha voglia e non è detto che ne abbia tanta da tradurre fedelmente quattro pagine stampate. Conclusione: il motivo posto a conforto della richiesta di restituzione in termini sembrava buono; ed è con più di una speranza che il difensore, dopo aver redatto l’atto, lo aveva portato in carcere a che Sai lo firmasse e, tramite l’ufficio matricola, lo facesse pervenire al giudice. Ma — si domanderà lo studioso — perché mai il difensore non fece tutto da solo? Perché non firmò, lui, l’istanza di restituzione in termini? In realtà l’avrebbe potuta firmare: l’art. 99 c.p.p. è chiaro nell’estendere al difensore “i diritti dell’imputato”: semplicemente di tale articolo il difensore... si era dimenticato (e del resto, va anche detto, che far firmare l’atto all’imputato era facile e non presentava controindicazioni). Questo non fu il solo errore che al difensore fece commettere... il cambio di fuso orario (egli era appena tornato dall’Argentina).

Infatti egli, dopo una lettura non troppo meditata dell’art. 175, aveva rivolto l’istanza (di restituzione in termini) al tribunale (e non al GIP): forse che l’art. 175 (nel suo comma terzo) non dice che “sulla richiesta decide con ordinanza il giudice che procede al tempo della presentazione della stessa”? Forse che il p.m. non aveva chiesto il giudizio “immediato” (art. 453) e forse che il GIP, accogliendo tale richiesta (art. 455) non aveva investito il tribunale della causa? Sembrava tutto quadrare e quadrare nel senso, appunto, che competente a decidere sull’istanza fosse il tribunale (e non il GIP); e tuttavia, presentata l’istanza (o, meglio, fatta presentare, dall’imputato, l’istanza), dentro il difensore una vocina (la voce della coscienza che, ancorché fievole, riesce a farsi sentire anche nel cuore del più indurito di noi penalisti?!) gli diceva ch’egli era stato troppo sbrigativo a risolvere la questione: sì, è vero, il GIP aveva già emesso il decreto con cui disponeva il giudizio immediato, però è anche vero che, al momento della presentazione dell’istanza, il fascicolo era ancora nel suo ufficio (e ci sarebbe rimasto ancora un bel po’: i tempi della nostra burocrazia non sono velocissimi!) e ciò significava che il giudice, che aveva più a portata di mano le carte processuali per decidere con rapidità (si fa per dire!) sull’istanza, era il GIP e non il tribunale: insomma a volersi far guidare da ragioni di efficienza e di funzionalità, era quello e non questo il giudice a cui attribuire la competenza a decidere sull’istanza, e siccome la nostra Corte di Cassazione è (giustamente!) molto sensibile alle ragioni di efficienza della macchina della giustizia, non è detto che, insomma, una almeno piccola ricerca giurisprudenziale sarebbe stato opportuno farla.

Quella benedetta vocina non la smetteva di scocciare ed il difensore fece la sua bella ricerca di giurisprudenza e trovò quello che proprio non desiderava trovare: effettivamente la Cassazione attribuiva la competenza a decidere proprio al GIP, e perché? perché, diceva la Cassazione, anche dopo che il GIP ha emesso il decreto di citazione, non si può dire che non sia più lui a procedere, perché egli pur sempre deve provvedere a selezionare gli atti, che vanno inseriti nel fascicolo del dibattimento (e spediti al giudice di questo) e quelli che vanno inseriti nel fascicolo del P.M. (ed a questo restituiti). Operazione, questa, che di solito non prende molto tempo al giudice (e noi avvocati abbiamo il sospetto che il più delle volte non... gli prenda neanche un minuto di tempo e che a far tutto, sia, solo soletto, il cancelliere!) ma che potrebbe in alcuni (rari) casi diventare complessa e laboriosa (e svolgersi, come previsto dall’art. 431 c.p.p., a cui l’art. 457 rinvia, anche col contraddittorio delle parti). Comunque, giusta o sbagliata, quella era l’idea della Cassazione e quindi il difensore doveva riconoscere di aver preso... un granchio: certe cause veramente nascono sotto una cattiva stella: si cerca di risolvere un problema e se ne fa nascere un altro.

Che fare ora? Certamente sarebbe assurdo che un errore sulle norme che regolano la competenza determinasse l’inammissibilità di un’istanza; certamente, anche nel caso, si dovrebbe applicare il principio stabilito a chiare lettere in materia di impugnazione dall’art. 568 c.p.p.6 ed il tribunale dovrebbe trasmettere gli atti al GIP, de plano, senza che neanche occorra che dichiari la propria incompetenza con sentenza (o con ordinanza o con decreto: nessuna norma infatti gli imporrebbe di rivestire la sua decisione di tali forme e quindi egli potrebbe esprimerla in una semplice missiva: “Al sig. GIP — Genova, per competenza — F.to Pinco Pallino” — si veda l’art. 125 co. 5 c.p.p.)7. Tuttavia, il difensore di Sai era un ansioso cronico (“non si sa mai quel che può passare nella testa dei giudici... meglio cautelarsi”): ritornò in carcere e fece fare al Sai un’altra istanza, questa volta diretta alla giusta autorità, al GIP.

A questo punto, il difensore poteva mettersi l’anima in pace? Non tanto, perché la istanza a ben guardare, non gli sembrava ben formulata: sarebbe stato preferibile farla seguire da una “memoria” che chiarisse meglio alcuni punti. Il difensore fa dunque una memoria; ma, ecco il punto: dove e quando presentarla? Il “dove” è facile dirlo: alla cancelleria del GIP; il “quando” invece è un bel problema: sarebbe infatti contro ogni logica presentare la memoria prima che sia arrivata (dal carcere) l’istanza e, d’altra parte, sarebbe inutile presentarla quando... sull’istanza il giudice ha già deciso: si tratta di presentare l’istanza in quell’intervallo (certe volte di poche ore, certe volte di varie settimane) che si forma tra l’arrivo dell’istanza e la decisione del giudice. E la cosa non è facile, perché l’arrivo dell’istanza non lascia traccia nei registri di cancelleria e quindi è inutile interrogarli: bisogna rassegnarsi a dar la posta al cancelliere, sperando di ottenerne informazioni esatte e cortesi: un’operazione abbastanza defatigante e antipatica. Comunque il difensore riesce anche a presentare tempestivamente la memoria ed a quel punto non gli resta veramente che aspettare.

Aspettare che cosa? Che gli notifichino la decisione del giudice? Ma può esser sicuro che tale decisione gli verrà notificata? Non tanto: tale decisione, infatti, non è impugnabile (v. sub 36)8 (strano ma vero: il giudice prende una decisione che comporta come unica conseguenza negativa il pagamento di qualche decina di euro — si pensi alla condanna per un reato contravvenzionale — ed il legislatore concede all’imputato e al suo difensore addirittura il diritto di impugnarla davanti alla Corte Suprema; si dà poi il caso che il giudice prenda, come nella fattispecie in esame, una decisione che, praticamente, negando all’imputato il giudizio abbreviato, gli brucia anche la possibilità di ottenere 3 o 4 mesi di reclusione in meno9 e contro tale decisione, che sia, o no, sospetta di aver bene interpretato la legge, il legislatore non dà nessuna chance di proporre impugnazione: non è strana la nostra legge?!) e siccome tale decisione (id est, la decisione che respinge l’istanza di restituzione in termini) non è impugnabile, neanche andrebbe notificata10. Ma il buon senso nelle nostre aule giudiziarie non è del tutto assente: in conformità ad una prassi (lodevole!), il giudice fece notificare all’imputato il suo provvedimento (che per la storia e a lode del giudice era anche motivato benino).

4. In difesa di Sai (al dibattimento)

Riprendiamo il discorso (iniziato nel precedente paragrafo) sul nostro Sai: egli, dunque, ha perso il treno: ricevuto il decreto di giudizio immediato non è riuscito a presentare l’istanza di giudizio abbreviato nei termini: deve quindi rassegnarsi ad essere giudicato col rito ordinario, a meno di scoprire una nullità nel decreto di citazione stesso. Ed, infatti, se viene dichiarata la nullità del decreto, il GIP dovrà emetterne un altro11 e il Sai, rispetto a tale nuovo decreto, riuscirà certamente, fatto frutto dell’amara esperienza passata, a proporre nei termini di legge la richiesta di abbreviato.

Pertanto, io, difensore, mi metto di buona lena a cercare la (sperata) nullità del decreto; ma questo, purtroppo, mi sembra sostanzialmente valido: il giudice (esperto) non si è limitato ad individuare l’imputato con le generalità (se lo avesse fatto, allora, sì, che sarebbe caduto in un “fatale” errore: l’imputato infatti è un “alias”, una persona cioè, di cui non si conoscono le esatte generalità)12, ma lo ha individuato, mediante il “cartellino dattiloscopico”; l’oggetto dell’imputazione è sostanzialmente bene individuato, insomma tutte le prescrizioni del combinato disposto degli articoli 456 co.1 e 429 c.p.p. sembrano rispettate. Sto già cadendo nello sconforto quando un’idea luminosa mi attraversa la mente: ma il Sai, in sede di convalida (art. 391 c.p.p.), non aveva eletto domicilio presso di me? certo che si! ed allora perché hanno notificato in carcere e non presso il mio studio? Un momento di riflessione ed arriva la risposta (però non soddisfacente): hanno così notificato in carcere in ossequio al combinato-disposto degli articoli 156 e 164 c.p.p.13. Un ossequio, però, fatto a sproposito: il suddetto combinato-disposto si applica nel caso di elezione di domicilio fatta prima della restrizione in carcere (Sai il 1 gennaio 2001 elegge domicilio, il 15.01.2001 viene arrestato: allora, sì, che la elezione di domicilio si caduca e le notifiche vanno fatte nel luogo di detenzione)14, ma non si applica, invece, nel caso in cui l’elezione di domicilio sia fatta durante lo stato di detenzione (Sai, arrestato il 15.01.01, lo stesso 15.01.01 o nei giorni successivi fa l’elezione)15.

Chiara dunque la nullità della notifica!16 E da ciò, deduco esultante, consegue necessariamente la nullità del decreto di citazione17.

Si tratta ora di far valere tale nullità senza incorrere in nessuna decadenza. Mi leggo gli articoli 178, 179, 180, 181 c.p.p.: risultato, navigo in piena confusione di idee: nella previsione di quale articolo ricadrà la “mia” nullità? Direi nella previsione dell'art. 179; sì, ma, in materia così opinabile, sarà identica alla mia, la interpretazione del giudice? Non corriamo rischi, mi dico, mettiamoci nella ipotesi più sfavorevole: cioè nell’ipotesi di nullità prevista dall’art. 181 co.3.

Di conseguenza, mi regolo come se dovessi sollevare l’eccezione di nullità “entro il termine previsto dall’art. 491 comma 1”. Però, prudentemente, non aspetto l’udienza per sollevare l’eccezione. E questo per due motivi: primo, perché il giudice, all’udienza, non ha tempo di approfondire le questioni e, se si trova di fronte ad un’eccezione difficile, che cioè involge complicati problemi giuridici é portato a rigettarla; secondo (motivo), perché “il termine previsto dall’art. 491” è un termine “sfuggente”: nel senso che il difensore, nella confusione dell’udienza, può trovarsi ad averlo sorpassato senza neanche accorgersene: l’ufficiale giudiziario chiama le parti e i testimoni (mentre gli avvocati parlano tra di loro o tra di loro e il P.M. o tra di loro e il presidente, insomma mentre vi è completa confusione) e poi il presidente (senza di solito dichiarare aperto il dibattimento, senza che l’ausiliario dia lettura dell’imputazione — come invece pretenderebbe l’art. 492: se lo legga lo studioso) invita il P.M. e le parti a fare le loro richieste; ed a questo punto già si è decaduti dal termine. Ecco perché non aspetto l’udienza per sollevare l’eccezione di nullità, ecco perché prendo carta e penna e redigo una sintetica memorietta in cui sollevo l’eccezione; memorietta che due o tre giorni prima dell’udienza deposito in cancelleria.

Viene, poi, l’udienza e io chiedo al giudice licenza di proporre la questione preliminare concernente la nullità (art. 491 co. 1): sì, è vero, la questione è stata avanzata nella memoria, però ciò non basta: il principio dell’oralità vuole che la sua esistenza venga palesata oralmente (forse che l’istanza non può, nella congerie di carte processuali che infoltiscono sempre di più i fascicoli del dibattimento e del P.M.18, sfuggire all’attenzione di una parte?).

Il giudice mi concede la parola ed io faccio del mio meglio per spiegare le ragioni che confortano l’istanza. Parla il P.M., che mi dà torto; il giudice si ritira in camera di consiglio e, quando esce, anche lui mi dà torto19: è andata male. Ma non tutto è stato inutile: il p.m., forse apprezzando il calore e l’impegno con cui mi sono battuto, mi dà una mano; e, quando faccio, nell’esame dell’imputato, risultare il suo stato di tossicodipendenza, è lui stesso a proporre un rinvio per acquisire dal carcere la cartella clinica (la cui lettura permetterebbe di controllare lo stato di tossicodipendenza dell’imputato)20. Il tribunale rinvia ed il resto è cosa di ordinaria amministrazione: la causa si sa come andrà a finire. L’unico punto oscuro è se risulterà effettivamente dalla cartella clinica la tossicodipendenza del Sai. Tra l’udienza di rinvio e la nuova udienza vado a controllare la cosa: la tossicodipendenza risulta e io per cautela chiedo copia della cartella. All’udienza di rinvio è sempre il P.M. (che ha preso a benvolere le sorti del Sai: quanto sono misteriosi e imprevedibili i meccanismi psicologici che spingono un magistrato ad alzare il pollice o ad abbassarlo inesorabilmente!) a chiedere il minimo della pena e le attenuanti generiche.

A questo punto, parlo solo lo stretto necessario: strafare sarebbe controproducente. Quando il tribunale, tornato da una (breve) camera di consiglio, legge il dispositivo21, posso rassicurare con eloquente mimica il Sai: non è andata bene, ma non è andata troppo male.

Comunque, l’appello va tentato; e mi annoto nell’agenda, al giorno 28.06.01, “andare in cancelleria, ufficio appelli, per leggere sentenza Sai”. Il difensore, infatti, non riceve nessun avviso dal cancelliere che la sentenza (voglio dire la sentenza completa, formata sia dal dispositivo che dalla motivazione) è stata depositata in cancelleria: deve essere lui a ricordarsi di andare al momento giusto in cancelleria (per leggersi la sentenza). Ma quando cadrà questo “momento giusto”? Cadrà quando si sarà esaurito il tempo che il giudice (che non ha ritenuto di “motivare” subito la sua decisione, secondo quella che per il co.1 art. 544 c.p.p. dovrebbe essere la regola, ma che nella pratica diventa l’eccezione) ha a sua disposizione per redigere la motivazione — tempo che normalmente è di 15 giorni (v. co.2 art. 544), ma che il giudice ha facoltà di prolungare fino a 90 giorni.

Nel mio caso il giudice, per fare la motivazione, si era riservato 30 giorni, quindi io avevo a disposizione 45 giorni per impugnare. Io, se ben ricordo, impugnai sia la sentenza che la ordinanza (V. art. 586 c.p.p.)22. Comunque certamente redassi e depositai un unico atto di impugnazione. Poi, non mi restò che aspettare il decreto di citazione a comparire davanti alla Corte di Appello. Il decreto mi venne notificato “soli” 6, 7 mesi dopo la sentenza di primo grado: la Corte di solito è più lenta, nel caso si era mossa in fretta (tutto è relativo), perché l’imputato era detenuto: egli avrebbe potuto avere ragione e non sarebbe stato né bello né giusto che tale ragione gli venisse riconosciuta quando già avesse espiata in carcere quasi tutta la pena.) 

5. Sempre in difesa di Sai al dibattimento (ma in un secondo procedimento)

Proprio nel tempo in cui facevo del mio meglio per difendere il Sai da quell’accusa di spaccio, di cui ho parlato nella precedente esperienza, un collega mi telefona: “Ho visto che difendi un certo Sai”. “Ah, sì, come sei venuto a saperlo?”. “Guardando le nomine che il carcere fa pervenire all’Ordine”. “Bene, ma perché ti interessa la cosa?”. “Perché io difendo d’ufficio lo stesso Sai in un altro procedimento in cui è accusato di un altro reato di spaccio, presumibilmente legato dal nesso della continuazione con quello dalla cui accusa tu lo difendi”.

Era chiaro che i due procedimenti andavano seguiti insieme: che chi difendeva Sai in uno, lo doveva difendere anche nell’altro (ed infatti il difensore nel procedimento A, anche solo per stabilire se il reato del procedimento B fosse connesso col vincolo della continuazione con quello di cui nel procedimento A, avrebbe dovuto consultare gli atti del procedimento B e non lo avrebbe potuto fare se non fosse risultato difensore anche nel procedimento B stesso). Ne parlo col collega e giungiamo alla conclusione che la cosa migliore è che sia io ad assumere la difesa in entrambi i procedimenti. Quindi, fattomi nominare da Sai anche per il secondo procedimento, mi metto a studiare la situazione. Ma in realtà c’è poco da studiare: l’optimum sarebbe che i due procedimenti fossero “riuniti” ed, infatti, in tal caso il giudice (identico per entrambi i procedimenti), a conclusione del processo dichiarerebbe (se effettivamente esistesse) la continuazione (nell’unica sentenza). Ma ciò non si può ottenere (dato che l’art. 17 c.p.p. esclude che possano essere riuniti due procedimenti che si trovano in un “grado diverso” del giudizio — com’è nella fattispecie, in cui un procedimento è in appello e l’altro in primo grado).

Non resta, dunque, che lasciare giungere al loro “capolinea” i due procedimenti e, poi, chiedere al giudice dell’esecuzione che applichi la continuazione (v. art. 671 c.p.p.); oppure, ancor meglio, concludere un procedimento (chiaramente quello in fase più avanzata, quello già in sede di appello) e far poi valere (naturalmente ai fini di ottenere la continuazione) la relativa sentenza, divenuta irrevocabile, nell’altro.

Dunque al lavoro: per ora si studia la nuova causa come se l’altro procedimento non esistesse e senza pensare alla continuazione, poi si vedrà.

Tanto per cominciare, sono state fatte validamente tutte le notifiche dovute all’imputato? Purtroppo, sì; col rito degli irreperibili, ma sono state fatte bene: infatti il P.M., prima, e, poi, anche il GIP23 hanno emesso il loro decreto di irreperibilità (dopo la constatata impossibilità di effettuare le notifiche ai sensi dell’art. 157 c.p.p. e l’infruttuosità delle indagini disposte per reperire l’imputato).

Tutto ok, allora? No, perché, è vero che le notifiche sono state regolarmente fatte (però, se ben ricordo, ai sensi del co.4 art. 161), ma il notificando non ne ha mai saputo nulla; e ciò gli ha impedito di difendersi adeguatamente, in particolare gli ha impedito di avanzare la richiesta di giudizio abbreviato: richiesta che ora, dopo che già l’udienza preliminare è stata celebrata, non può più essere avanzata (V. art. 438 co.2 c.p.p.).

Sì, ma queste considerazioni hanno un qualche peso e pregio per il nostro codice? Leggendo il co. 2 art.489 e il co.4 arat. 420bis sembrerebbe di sì e comunque io, a torto o a ragione, chiedo che l'imputato sia rimesso nei termini per chiedere il giudiizo abbreviato. Il tribunale ritiene infondata la domanda (dov'é mai la prova che il Sai incolpevolmente, come vuole l'art.489, ha ignorato la celebrazione della udienza? forse che si é premurato di indicare, dopo averlo cambiato, il suo domicilio?) e la respinge

Non mi arrendo, comunque, e — anche perché mi rendo conto da alcune frasi dette dal giudice e, diciamo pure, dal suo contegno aggressivo verso l’imputato, ch’egli si prepara a dargli una stangata24 — ne penso un’altra: agli atti manca la prova che l’imputato sia quello che ha venduto lo stupefacente (sì, c’è una ricognizione fotografica, ma quella, è pacifico, non costituisce sufficiente prova): certo, se viene il pubblico ufficiale, trova l’imputato seduto sulla panca, e il giudice gli domanda: “E’ lui che vendeva la droga?”, la frittata è bella che fatta: certamente il p.u. risponde di sì! Ma per fortuna il pubblico ufficiale non si è presentato all’udienza (per testimoniare) ed il giudice ha rinviato per escuterlo: basta non far trovare l’imputato in aula alla prossima udienza ed il gioco è fatto: la prova, l’unica prova in mano al p.m., fa cilecca.

Dò, quindi, un velato consiglio all’imputato e questi, che è un buon intenditore, mangia la foglia e alla udienza successiva non si presenta: è un suo diritto: nemo tenetur se detegere! Specie quando collaborare con la Giustizia (volutamente scrivo la parola con la g minuscola) significa collaborare ad un gioco ingiusto e perverso ai propri danni: questi riconoscimenti in aula sono infatti delle farse: seduto sul banco degli imputati, quindi ben riconoscibile, c’è l’imputato: si chiede alla persona, che deve effettuare il riconoscimento: “Vede in questa aula la persona che ha effettuata la rapina?”. Che cosa vi aspettereste che succedesse? Naturalmente che il teste punti il dito verso l’imputato e dica “Si, la vedo, è lui”; ed è quello che in effetti immancabilmente succede.

Con ciò, si badi bene, non si vuol escludere, in via di principio, la legittimità dei riconoscimenti in aula: vi sono, infatti, dei casi in cui si può sicuramente escludere il pericolo (quel pericolo, per evitare il quale il legislatore predispone l’iter probatorio degli artt. 213 ss c.p.p.) che il teste cada in errore nell’individuazione e nel riconoscimento di una persona. Sono i casi, ad esempio, di Tizio, che ha avuto per settimane al suo servizio l’imputata o che comunque l’ha per molto tempo diuturnamente frequentata: in tal caso si potrà dubitare della buona fede del teste (si potrà dubitare cioè che sia sincero), ma, se in buona fede lo si ritiene (se sincero lo si ritiene), non si potrà non credergli quando, avendogli indicato in aula la persona (da riconoscere), dirà con sicurezza “E’ lei!”. Vi sono, però, altri casi, in cui, invece, il pericolo di un errore nel riconoscimento (in buona fede) esiste, e per evitarlo occorre adottare le cautele di cui agli artt. 213 e ss. (ossia presentare il riconoscendo insieme ad almeno due altre persone che gli somiglino ecc. ecc.); ed il caso di Sai rientrava proprio in tale categoria.

Tutto questo dico soprattutto per discolparmi: perché qualche lettore potrebbe pensare che feci male a suggerire al mio assistito di non comparire: certo avrei fatto male se la giustizia funzionasse bene, ma siccome funziona male, io ritengo di aver fatto benissimo a consigliare al mio assistito di eluderla.

Comunque, riprendiamo il discorso: ho dato (sia pur velatamente) a Sai il consiglio di non comparire ed egli non compare. Compare invece il teste ed io spero ardentemente che il giudice (non già non condanni, condannerà, ma) condanni semplicemente basandosi sul riconoscimento fotografico effettuato dal teste: infatti il teste non era riuscito ad agguantare lo spacciatore da lui sorpreso, però andato in Questura, aveva passato in rivista varie foto di spacciatori ed in una di esse aveva ritenuto di riconoscere il Sai.

La Cassazione è chiara nell’escludere la efficacia probatoria (meglio, la piena efficacia probatoria) di un tale riconoscimento: in appello avrei avuto buon gioco! Bene, la trappola è tesa, ma il giudice non ci casca.

Merito del p.m., che ha buon naso, subdora il tranello, e, dopo aver detto lemme lemme (e con una faccia sprizzante bonaria ironia che, volentieri, avrei metaforicamente preso a schiaffi) che il riconoscimento fotografico, prova, sì, ma forse non a sufficienza, chiede al giudice di ordinare la traduzione dell’imputato per procedere, con la sua forzata collaborazione, al riconoscimento. Ahimè è una richiesta ben fondata (sull’art. 490 c.p.p.) ed io come difensore (del tutto spiazzato!) non posso far altro che protestare che non è giusto fare un rinvio del processo per rimediare ad un défaillance della pubblica accusa: questa, se voleva procedere ad un riconoscimento in aula, avrebbe dovuto dichiararlo nella lista di cui all’art. 468 c.p.p.. Ma tale tesi, bisogna che lo riconosca, passato l’accaloramento dell’udienza, era in fondo ben discutibile25 e, comunque, l’art. 507 c.p.p. ha le maglie troppo larghe e favorisce ogni lassismo (e, diciamo anche questo: quante volte la difesa si era giovata di tale lassismo per ottenere dei rinvii con cui rimediare a proprie défaillances: ed, allora, era bene che sul punto non facesse troppo la voce grossa!).

Conclusione: le obiezioni della difesa vengono disattese. Unico contentino a lei concesso: si esclude un riconoscimento informale in aula; ed infatti la traduzione (dell’imputato) viene, sì, disposta, ma solo per una ricognizione formale ai sensi degli artt. 213 ss. c.p.p.

Alla successiva udienza, dunque. Ed a questa le cose vanno com’era prevedibile: il tribunale, che avrebbe dovuto organizzare il riconoscimento procurando la presenza in aula di due persone (da affiancare al riconoscendo), non ha pensato a nulla: solo dopo qualche ora si riesce a raccattare due persone da affiancare al riconoscendo26.

La difesa fa, quindi, mettere a verbale che le persone prescelte non somigliano al riconoscendo (come invece vorrebbe l’art. 214) e poi si prepara al peggio. Che, com’era prevedibile, arriva con le parole del pubblico ufficiale riconoscente: “Riconosce in una delle tre persone lo spacciatore da lei sorpreso?” — domanda il giudice. “Sì” — risponde con voce ferma il pubblico ufficiale — “è quella al centro” (chissà perché gli imputati hanno quasi sempre l’infelice idea di porsi al centro della fila?!).

A questo punto, il processo è fatto: io mi rendo conto che l’unica chance di ridurre la pena è di far valere la continuazione tra il fatto addebitato nel processo in corso e l’altro fatto di spaccio (avvenuto pochi mesi dopo) per cui Sai era già stato condannato (a tre anni). E, per raggiungere tale scopo, produco la sentenza (da cui risulta il passaggio in giudicato), che ha definito il precedente processo. Nessuno eccepisce nulla: l’art. 495 c.p.p. — che vorrebbe dedotte nella fase degli atti introduttivi al dibattimento, tutte le prove, non solo quelle per cui va operata la discovery prima dell’udienza, ma anche quelle, come le documentali, per cui la discovery non è necessaria — è un articolo poco rispettato nelle nostre aule di giustizia!

Si passa, quindi alla discussione: io non demordo (non è nel mio carattere e nel carattere di nessun vero avvocato penalista!), chiedo anche la assolutoria; ma so di combattere una battaglia persa: punto quindi soprattutto a ridurre la pena e ad ottenere la continuazione.

Il giudice legge la sentenza: la pena non è quella che si aveva ragione di temere all’inizio del processo (il giudice ha evidentemente recepito parte del discorso difensivo sull’assurdità di punire il Sai più severamente perché aveva commessi più atti di spaccio: è ben difficile imbattersi in un spacciatore occasionale: tutti gli spacciatori sono delinquenti abituali e di ciò il legislatore già tiene conto nel determinare la pena!). Però non riconosce la continuazione.

Penso “Ne spiegherà le ragioni in sentenza”. E passati una ventina di giorni mi reco in cancelleria e mi leggo la sentenza: sulla continuazione neanche una parola. Ma questa giustizia è fatta con il cervello o con le scarpe?! Arrabbiatissimo (a torto o a ragione) faccio appello.

6. In difesa di Bouca

Sabato 30 marzo la Guardia di Finanza mi telefona per avvisarmi che ha arrestato (chiaramente in flagranza di reato: art. 381 c.p.p.) due tunisini che stavano contrabbandando dei t.l.e. (tabacchi esteri lavorati: sigarette). Con ciò la Polizia non fa che adempiere al dovere impostole dall’art. 386 co.2. c.p.p.

L’indomani un’altra telefonata: questa volta è la cancelleria del GIP: mi dà l’avviso (prescritto dall’art. 390 co.2 c.p.p.) che il giudice delle indagini preliminari interrogherà i due tunisini nella casa circondariale di Genova—Marassi, martedì 2 alle ore 9,45. Che fretta, penso io: non potevano prendersela con più calma (e non ho tutti i torti: è la vigilia di Pasqua!); e faccio i calcoli: metti che la P.G. abbia operato l’arresto alle ore 15 (del 30 marzo), ebbene il P.M. avrebbe potuto aspettare fino alle ore 15 del I aprile per chiedere27 al GIP la convalida28 e, a sua volta, il GIP avrebbe potuto limitarsi a fissare l’udienza di convalida per le ore 15 del 3 aprile ed io avrei avuto un giorno in più di relax.

Pazienza: evidentemente il P.M. ha voluto togliersi ogni fastidio e godersi, libero da ogni impegno, le feste ed ha presentata la richiesta la mattina del 31 (costringendo, però, così il GIP a fissare l’udienza per il 2). Ed una ulteriore conferma del fatto che mi trovo di fronte ad un P.M. intenzionato a scaricarsi da ogni preoccupazione, in vista del pranzo pasquale, è che mi arriva nella mattina di Pasqua, per fax, anche il provvedimento di convalida della perquisizione e del sequestro29.

Faccio buon viso a cattivo gioco e, sia pur brontolando un po’, mi reco il 2 aprile al carcere. L’udienza era stata fissata per le 9,45; ma (naturalmente) il giudice non è che avesse da fare solo la convalida dell’arresto dei due tunisini: c’era insomma da aspettare e l’attesa per me durò fino alle 12.

E’ a quest’ora che l’assistente del giudice mi avvisa: “Tocca a lei, avvocato”: io entro nella saletta (niente toga e niente formalismi e d’altra parte sono anni che conosco il giudice e ci diamo del tu) e si procede all’interrogatorio dei due indagati. Si capisce subito che non si tratta di contrabbandieri di professione: sono due operai che, recatisi a visitare dei loro parenti in Tunisia, hanno pensato bene di portare in Francia, passando per l’Italia, (oltre a prodotti vari della loro fertile terra natale: cereali, peperoncini, frutta — anche) delle sigarette (per la precisione circa 38 Kg. pari a circa 1500 pacchetti). E’ brava gente, ma le pene ahimè in materia di contrabbando sono severissime e, cosa particolarmente dolorosa per i due malcapitati, contemplano (come pena accessoria) la confisca dell’auto di cui ci si è serviti per il contrabbando. Il primo passo comunque è di farli tornare alle loro famiglie.

Ed è cosa, questa, che ottengo senza nessuna difficoltà: il giudice è persona equilibrata: certo una misura cautelare deve adottarla, ma adotta la più indolore: il divieto di accesso e di permanenza nella provincia di Genova (insomma applica il primo comma dell’art. 283 c.p.p.).

Dunque i due tunisini se ne escono dall’aula felici e contenti: il pomeriggio potranno uscire dal carcere e tornare in Francia. E io mi domando: si faranno più vivi? Si fanno vivi, dopo alcuni giorni, per telefono, esprimendomi il loro grande cruccio: l’auto e le cibarie varie che sono rimaste nelle mani della nostra Guardia di Finanza. Bisogna provvedere a farli tornare in possesso di quella e di queste. Sì, ma un problema per volta: cominciamo dalle cibarie: è il problema più facile da risolvere.

Carta e penna e faccio una istanza scritta al giudice (al giudice delle indagini preliminari e non al P.M.), perché autorizzi i due tunisini a venirsene a Genova per ritirare la merce (che, si badi, non è sotto sequestro, ma solo in “temporanea custodia” presso la Guardia di Finanza).

Il giudice, a cui presento di persona l’istanza, non ha nessuna difficoltà ad accoglierla; in calce all’istanza stessa scrive il suo provvedimento e mi dice di portare l’istanza (e il pedissequo suo provvedimento) dal cancelliere perché ci metta un timbro e me lo ritorni. Ma il cancelliere, a sentire le istruzioni del giudice, inorridisce: il provvedimento deve restare nel fascicolo (ed ha ragione!), va piuttosto avvisata la polizia a che non arresti i due tunisini quando entreranno in Italia (e anche qui ha ragione: in queste cose ne sanno più i cancellieri che i giudici!): comunica, quindi, il provvedimento, via fax, alla Guardia di Finanza ed alla Questura ed a me (bontà sua!) ne dà una copia (non autentica!), perché la faccia avere ai miei assistiti.

Il primo problema (recupero delle cibarie) è così risolto. Va ora affrontato il secondo (recupero dell’auto). Questo è veramente più difficilottino: non so proprio che pesci prendere. Un modo per chiarirmi le idee, penso, è quello di vedere le carte che l’accusa ha in mano. La cosa è possibile e lecita: forse che l’art. 366 c.p.p. non dà al difensore la facoltà di esaminare con calma in cancelleria “i verbali degli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria ai quali ha diritto di assistere”?!

Mi reco quindi alla segreteria del p.m. e chiedo di vedere gli atti. “Le potrò far vedere solo i verbali di sequestro e di ispezione” — mi dice la segretaria perentoria (e, mi pare, quasi diffidente). Ma ha ragione: senza dubbio io ho diritto di vedere (per l’art. 356 c.p.p.) i verbali degli atti di perquisizione e di sequestro (atti ai quali avrei avuto diritto di assistere) ed infatti la graziosa (ma un po’ bisbetica!) segretaria non me li rifiuta, ma solo quelli: non ho, infatti, diritto (nonostante l’art. 128 c.p.p.) di vedere le ordinanze del GIP (di convalida dell’arresto e di applicazione di una misura cautelare), perché al loro deposito avevo in sede di udienza di convalida malauguratamente rinunciato e non ho diritto di vedere neanche le richieste del P.M., di cui all’art. 390 c.p.p. e gli “elementi su cui le stesse si fondano”, per la semplice ragione che il legislatore ne nega la visione al difensore30.

Di conseguenza ora navigo nel buio più completo: non posso sapere se il sequestro, sia stato, dalla P.G. spedito nelle 48 ore volute dall’art. 355 c.p.p. al P.M.; tanto meno sono in grado di valutare se sussistono i presupposti per ritenere l’inefficacia dell’arresto: quando l’arrestato è stato messo a disposizione del P.M.? quando il relativo verbale gli è stato trasmesso? quando il P.M. ha chiesto al GIP la convalida (…)? Tutto ciò non mi risulta! Se volevo conoscere tali elementi dovevo dimostrarmi difensore più grintoso all’udienza di convalida e chiedere al GIP di indicarmeli: ora l’attimo fuggente era passato.

Comunque ne sapevo abbastanza per imbastire un’istanza di riesame del sequestro dell’auto; cosa che col mio solito ottimismo e la mia solita fiducia nella “immancabile vittoria” mi affrettai a fare per non essere strangolato dal breve termine previsto dal co.3 art. 335 c.p.p.

Cosa dicevo in tale istanza? Tante cose, tutte sensate e delle quali la più sensata (e della cui sensatezza sono ancora convinto!) era questa: il sequestro effettuato dalla Polizia (ai sensi dell’art. 354 c.p.p.) era stato convalidato (ai sensi dell’art. 355) dal P.M. come se fosse effettivamente finalizzato a salvaguardare l’integrità delle prove, cioè come se fosse stato un “sequestro giudiziario”, mentre invece tale non era (sarebbe stato tale se si fosse potuto pensare che l’esame dell’auto poteva in futuro risultare utile per provare la responsabilità degli imputati31 - ma così non era). Il sequestro in oggetto (nonostante la etichetta di comodo appioppatagli di “sequestro giudiziario”) era in realtà un sequestro preventivo (in quanto era finalizzato a rendere possibile la eventuale confisca della res)32 e, quindi, (a pena di nullità) doveva essere convalidato, non dal P.M., ma dal GIP (v. co. l art. 321 c.p.p.): ciò non era stato fatto, il sequestro doveva pertanto ritenersi nullo.

Felice e orgoglioso del marchingegno architettato (per togliere il sequestro all’auto e restituirla ai miei bravi tunisini) mi reco con la mia bella istanza nella cancelleria del tribunale del riesame. Vengo accolto da una gentile signorina; che, così scopro, non si limita a ricevere gli atti che noi avvocati le portiamo, ma, non essendo evidentemente troppo pressata dal lavoro, anche se li legge. La cosa mi pare di buon auspicio (se è così diligente il cancelliere, figuriamoci i giudici!); sento di trovarmi in un “super-ufficio” e ciò mi spinge ad azzardare: “Potrei avere una ricevuta del deposito?”33.

La signorina non si offende per la mia diffidenza, ma mi fa osservare che, se voglio la ricevuta, debbo presentare una istanza ad hoc e pagare i relativi diritti di cancelleria. La furbetta conosce i suoi polli (almeno quelli del pollaio genovese). Io comincio a tentennare: il possesso della ricevuta non mi sembra più una cautela tanto necessaria. Rinuncio poi ad ogni scrupolo (difensivo) quando la gentile signorina, tranquilla e sorniona, aggiunge: “Ma, avvocato, non è mai successo che qui si sia perso qualche cosa”. L’idea di rendere ancora più magro l’onorario, datomi dai due tunisini, con degli esborsi a favore dello Stato, non mi arride; dò così volentieri fiducia alla gentile e graziosa cancelliera e me ne torno in ufficio. A che fare? Tante cose (noi avvocati siamo sempre indaffarati), ma nessuna che riguardi il processo Bouka: per questo, infatti non ho che da aspettare. Che cosa? Diamine, l’avviso di fissazione dell’udienza.

E questo, infatti, puntuale arriva, portatomi dall’ufficiale giudiziario: è venerdì 12 aprile: l’udienza è fissata per il 18 aprile alle ore 9.0034.

Se fossi più sicuro di me, potrei presentarmi all’udienza, senza passare prima nella cancelleria per consultare gli atti (gli atti che, per l’art. 324 co.3 c.p.p., il P.M. deve depositare nella cancelleria del tribunale). Però è un po’ che non frequento il tribunale del riesame e la sicurezza non abbonda in me. Mi reco così in cancelleria e ordino copia degli atti (“senza urgenza”: io ho la virtù del risparmio). Però un dubbio (e a dir il vero, più che un dubbio, una curiosità) mi punge: chi mi dice che il P.M. ha prodotti tutti gli atti necessari a me per controllare la correttezza del suo operato? E’ vero, la legge, il codice (nel suo art. 324 co.3) dispone che la “autorità procedente” “trasmette al tribunale gli atti su cui si fonda il provvedimento oggetto del riesame”, ma chi mi dice che così sia? Confesso, però, che a tale domanda non sono riuscito a trovare ancor oggi una soddisfacente risposta.

La cosa però non mi tormenta più di tanto: problemi assai più gravi mi assillano: dei due indagati, quello che risulta proprietario dell’auto sequestrata, il Bouka Slah, è persona “mentalmente disabile”; così l’ha definito l’altro indagato, che è lo zio, e tale risulta dalla sentenza di un tribunale francese.

Tale suo stato rende improbabile che fosse consapevole del contrabbando e coautore del relativo reato (e quindi, risultando lui il proprietario dell'auto, rende illegittima una confisca di questa e infondato un sequestro a tale confisca finalizzato)35; però, ecco l’altra faccia del problema: se all’udienza dichiaro lo Slah “portatore di handicap a livello mentale”, poi potrò fargli firmare quella domanda di giudizio abbreviato (che ho in mente come prossima mossa nel processo)? Oppure il tribunale disporrà una perizia (per accertare il suo stato di salute mentale) e sospenderà il processo?

Il dubbio è atroce. Però ragiono: il tribunale del riesame di certo non può disporre la sospensione del processo: perché? Ma perché la revoca del sequestro è chiaramente un atto che giova all’imputato e dall’art. 70 co. 2 c.p.p. si ricava facilmente che, nonostante la incapacità dell’imputato, si possono compiere gli atti a suo favore. Poi, una volta operato il dissequestro, se vogliono sospendere il procedimento, lo sospendano pure: ciò non danneggia l’imputato!

Sciolto quest’ultimo dubbio, preparatomi il mio bel discorsetto, il 18 mi presento alla porta dell’aula di udienza. Vi sono in quel giorno solo due pratiche a ruolo: la mia e un’altra per il riesame di una misura restrittiva della libertà personale. Il tribunale dà la precedenza a questa (che è la più delicata).

Quando il collega esce, entro io. Il P.M. non c’è. Un giudice a latere (una simpatica signora) fa la sua bella relazione (a dir il vero confondendo parecchie cose); poi tocca a me. Siccome, dopo aver presentato il ricorso, avevo introdotto un “motivo nuovo” con una memoria, domando al presidente se debbo far verbalizzare ai sensi dell’art. 309 c.p.p. il nuovo motivo, o no. Il presidente mi tranquillizza: avendolo già esposto in una memoria, la verbalizzazione è inutile. Il tono del presidente è affabile e gentile e ciò mi incoraggia nella mia (dettagliata) esposizione dei motivi per cui non va convalidato il sequestro. Nonostante la mia logorrea, l’atmosfera continua ad essere cordiale: il relatore si permette garbate osservazioni: io dò i miei chiarimenti. Finisco abbastanza speranzoso e soddisfatto. “Buon giorno giudici” — “Buon giorno avvocato”. E la decisione del tribunale? Ah, per quella bisognerà aspettare: non è che i giudici la prendono subito. Però la prendono; purtroppo non sempre favorevole, come nel caso, al combattivo avvocato che si è sgolato davanti a loro.

Il processo non è finito con la (sfavorevole) decisione del tribunale del riesame: un processo, caro giovane collega, è una guerra: battaglie si perdono, battaglie si vincono: quel che importa è vincere l’ultima battaglia, quella definitiva.

Senza perdermi d’animo, dunque, imposto la seguente strategia processuale: dei due imputati, uno, lo zio, è chiaramente colpevole (era lui che guidava l’auto, era lui, soprattutto, che, per sua stessa ammissione, l’aveva caricata di tutto quel ben di Dio da contrabbandare), l’altro, il nipote, è invece, chiaramente (sta ritornando dopo la batosta il mio solito ottimismo) in stato di assolutoria (é, sì, il proprietario dell’auto, ma non ne era alla guida, era un semplice trasportato, e la sentenza del tribunale francese, che lo dichiara incapace di intendere e gli nomina un tutore, fa pensare ch’egli neanche potesse rendersi conto del reato che, col mezzo della sua auto, si stava commettendo): farò dunque per il primo (per lo zio) un bel patteggiamento, per il secondo, invece, chiederò l’abbreviato (e, ne sono sicurissimo, ne otterrò l’assoluzione).

Prima mossa: fare il patteggiamento. Concordo col p.m. la pena da applicare (il minimo: il p.m. è una “anima buona”), redigo l’istanza (per la pena concordata), il p.m. fa risultare il suo consenso in calce all’istanza, il GIP l'accoglie.

Sistemato, al meglio ottenibile, lo zio, Bouka Ha, dovevo pensare a toglier dai guai il nipote, Bouka Slah.

Come avevo programmato redigo per lui un’istanza di giudizio abbreviato; e la firmo personalmente perché avevo avuta l’avvertenza di farmi rilasciare dal Bouka Slah una procura speciale (sia a patteggiare che a richiedere il giudizio abbreviato).

Con ciò ero pronto per presentare l’istanza, ma con ciò non la presentai subito: perché? Perché mi parve opportuno parlare prima col p.m. per sollecitarlo ad una rapida conduzione delle indagini36: il p.m. me lo promise: “Stia tranquillo, avvocato, quanto prima chiederò il giudizio immediato”. Perché il giudizio immediato? chiaramente perché a lui, la prova della colpevolezza, “appariva evidente”)37 — la cosa non mi parve di buon augurio, dato che a me appariva invece evidente la prova dell’innocenza e quindi se mai più congrua, da parte di un p.m., che volesse comunque sostenere l’accusa, “la richiesta del rinvio a giudizio” di cui all’art. 416 c.p.p. - ma lasciai perdere: non era il tempo e il luogo per discutere il merito della causa.

Il P.M. chiese il decreto del GIP in tempi decentemente brevi (anche perché jugulato dal prossimo esaurirsi di quei 90 giorni concessigli dall’art. 454 per trasmettere la sua richiesta al GIP); il GIP nei prescritti (dall’art. 455 c.p.p.) cinque giorni emise il decreto che disponeva il giudizio; e io (nei termini impostimi dall’art. 458) depositai (dove? naturalmente nella cancelleria del GIP) la mia richiesta di abbreviato.

Non molti giorni dopo, mi fu notificata un’ordinanza di ammissione al giudizio (abbreviato). Tutto o.k.? Ahimè, no (proprio vero che quando un processo nasce sotto una cattiva stella...): infatti io avevo subordinato la mia richiesta “ad una integrazione probatoria” (art. 438 co.5) e precisamente all’acquisizione di alcuni documenti scritti in francese: il GIP riteneva, sì, di tali documenti, “necessaria ai fini del giudizio” l’acquisizione, ma dichiarava che era “onere del difensore che li ha prodotti (id est, ha prodotti tali documenti) procedere alla loro traduzione giurata”.

Insomma, le regole del gioco venivano stravolte: io mi ero dichiarato disposto al giudizio abbreviato, contando di essere gravato dell’unico onere di produrre i documenti e, invece, il GIP disponeva il giudizio abbreviato gravandomi sia dell’onere di produrre i documenti, sia di quello di tradurli. Non mi sembrava giusto: stando così le cose, non mi ritenevo vincolato dalla mia richiesta di abbreviato e con istanza ad hoc chiesi che venisse revocato il provvedimento che revocava (scusi il lettore il bisticcio di parole) il giudizio immediato e che mi si permettesse così di adire il tribunale (e il giudizio ordinario).

Presentai l’istanza in cancelleria in settembre, quando il GIP che aveva emessa l’ordinanza (da me criticata) era ancora in ferie. Pertanto fu chiamato a decidere su tale istanza un suo collega (melius, una sua collega: era una signora molto gentile e graziosa, ma chiaramente non una “decisionista”). Gli parlai, ed egli (melius, ella) mi disse che avrebbe chiesto lumi al dirigente l’ufficio (e io immaginai subito il tenore del discorso: “Come fare? l’avvocato non ha tutti i torti: però, come si fa a dichiarare abnorme l’ordinanza della collega, come le si può fare tale sgarbo?”).

Fatto sta che fu emessa un’altra ordinanza, che chiaramente voleva dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, senza scontentare nessuno: non revocava la precedente ordinanza del GIP, ma lasciava aperta e quasi suggeriva la possibilità che la traduzione dei documenti avvenisse a cura dell’ufficio38.

A questo punto, lo studioso, giustamente impaziente, dirà: sì, tutto bene, ma come andò a finire questa lunga faccenda? Finì con una strepitosa vittoria della difesa (lo stesso P.M. si complimentò con me!): finì con una sentenza di assoluzione.

1Ad ogni procedimento viene attribuito un numero. Ad esempio: 1930/200l R.G. N.R. significa: procedimento iscritto col numero 1930 nel registro generale delle notizie di reato del 2001.

Praticamente sono due i numeri di ruolo che servono a contraddistinguere in maniera univoca un procedimento: quello assegnato al momento della sua iscrizione nel “registro notizie di reato” e quello assegnato quando passa “in carico” ad un determinato ufficio: ufficio del P.M., ufficio del GIP, ufficio del tribunale. Visionando il doc. AD1 (nella sezione II) lo lo studioso potrà vedere, in alto a sinistra per chi guarda, il NGNR (numero generale notizie reato) e il N.G.Tr (numero generale tribunale).

2A questa domanda, a cui io rispondevo con tanta sicurezza positivamente, da praticone qual sono, forse un professore universitario non darebbe eguale risposta (positiva). Infatti l’art. 367 c.p.p. stabilisce che “nel corso delle indagini preliminari, i difensori hanno facoltà di presentare memorie e richieste scritte al pubblico ministero”; ma non stabilisce per nulla un obbligo del P.M. a dare udienza al difensore.

3V. artt. 390 e 391 c.p.p..

4V. artt. 453 e ss. cp.p. ed, in particolare, l’art. 454, per la richiesta del giudizio immediato da parte del P.M., e l’art. 455, per quel che riguarda il decreto del GIP che l’accoglie.

5Termine che illo tempore era di sette giorni, ma che ora, proprio per evitare gli inconvenienti nel testo lamentati, é stato elevato a quindici giorni.

6Il co. 5 art, 568 nella sua ultima parte recita: “ Se l'impugnazione é proposta a un giudice incompetente questi trasmette gli atti al giudice competente”.

7Che recita: “(I provvedimenti per cui non sono prescritte le forme della sentenza, dell’ordinanza, del decreto) sono adottati senza l’osservanza di particolari formalità e, quando non è stabilito altrimenti, anche oralmente”. E’ solo quando il processo è giunto ad una certa “maturazione” che il Legislatore impone di dichiarare l’incompetenza con sentenza. Per cui il giudice “se riconosce la propria incompetenza”, “nel corso delle indagini preliminari”, “pronuncia ordinanza” (co.1 art. 22), se la riconosce “dopo la chiusura delle indagini preliminari”, “la dichiara con sentenza” (co.3 art. 22). Nel caso, poi, l’incompetenza sia rilevata nel dibattimento, va da sé che essa viene dichiarata con sentenza (v. artt. 23 e 24).

8Infatti sono impugnabili solo quei provvedimenti che tali la Legge dichiara (v. meglio, l'art. 568 c.p.p.) e la decisione emessa sull’istanza di restituzione in termini non è dichiarata dalla Legge tale (v. art. 175).

9A tanto potrebbe equivalere quella riduzione di un terzo che premia l’imputato che ha richiesto il rito speciale (v. art. 442 co.2 c.p.p.).

10L’art. 128 c.p.p., infatti, recita: “Salvo quanto disposto per i provvedimenti emessi nell’udienza preliminare e nel dibattimento, gli originali dei provvedimenti del giudice sono depositati in cancelleria entro cinque giorni dalla dichiarazione. Quando si tratta di provvedimenti impugnabili, l’avviso di deposito contenente l’indicazione del deposito è comunicato al pubblico ministero e notificato a tutti coloro cui la legge attribuisce il diritto di impugnazione”.

11Vedi l’art. 185 c.p.p., che recita, nel suo secondo comma: “Il giudice che dichiara la nullità di un atto ne dispone la rinnovazione”; e, nel suo terzo comma: “La dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato e al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo”.

12Ciò che non impedisce all’A.G. di procedere oltre nel giudizio; infatti per il c.p.p. art. 66 “L’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità non pregiudica il compimento di alcun atto da parte dell’autorità procedente, quando sia certa l’identità fisica della persona”.

13L’art. 164 c.p.p. recita: “La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli artt. 156 e 613 comma 2, c.p.p.”.

Il co. 1dell’art. 156 recita: “Le notificazioni all’imputato detenuto sono eseguite nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona”.

14E ciò per l’intuitiva ragione che i motivi, che rendevano il 01.01.2001 opportuna l’elezione di domicilio (metti che Sai conducesse vita vagabonda e sentisse l’esigenza di un porto sicuro in cui le notifiche a lui fatte potessero approdare), una volta che Sai è detenuto, presumibilmente vengono a mancare (infatti, una volta detenuto, il modo più sicuro per Sai di ricevere le notifiche è che queste gli vengano fatte in carcere).

15E infatti il detenuto può ben avere interesse che le notifiche siano fatte putacaso (ed è il caso più ovvio e più frequente) al difensore: forse che da una notifica non decorrono spesso dei termini perentori ma utili per il compimento di atti rilevantissimi (ad esempio, i termini previsti dagli artt. 446 co.1, 458 co.1)? Forse che il compimento di tali atti in pratica non è eseguito dal difensore? E, allora, perché impedire al detenuto di evitare giri viziosi facendo pervenire subito la notifica al suo difensore?!

16Vedi art. 171 lett.d, c.p.p., secondo cui “la notificazione è nulla se sono violate le disposizioni circa la persona a cui deve essere consegnata la copia”.

17Vi era un altro problema che la causa avrebbe potuto presentare, una volta ritenuta la nullità della notifica; ed era questo: la comparizione dell’imputato (o la sua rinuncia a comparire) non avrebbe avuto l’effetto di sanare la nullità? Tale problema avrebbe tratto la sua (apparente) validità dal disposto dell’art. 184 c.p.p., secondo cui “la nullità di una citazione o di un avviso ovvero delle relative comunicazioni e notificazioni è sanata se la parte interessata è comparsa o ha rinunciato a comparire”. Senonché tale disposizione è un corollario del principio processuale (espressamente dichiarato nel C.P.C., però e non nel C.P.P.) che il raggiungimento dello scopo di un atto ne sana la nullità.

Di conseguenza, era da ritenersi, sì, che la comparizione dell’imputato —dimostrando che, comunque sia, lo scopo di informarlo dell’udienza era stato raggiunto (se non dalla notifica irregolare dell’atto, in qualche altra maniera) -sanava la nullità di quella parte dell’atto che aveva la funzione di informare il notificando dell’udienza; però era anche da ritenersi che essa (id est la comparizione dell’imputato) non sanava la nullità di quella parte dell’atto che aveva la funzione di “dar termine” al notificando per presentare la richiesta di abbreviato. Debbo dire, però, che, nella causa oggetto del nostro studio, il problema ora accennato (cioè il problema della sanatoria della nullità in seguito alla comparizione dell’imputato) neanche si pose.

18Ma, a proposito, in quale dei due fascicoli l’istanza veniva a trovarsi? Nel fascicolo del dibattimento (non in quello del P.M.), non c’è da dubitarne; anche se, sul punto, il codice non dispone espressamente (neanche nell’art. 515 c.p.p.).

19Contro l'ordinanza del tribunale io proposi appello (naturalmente insieme a quello contro la sentenza — V. art. 586 c.p.p.). Forse sbagliai (ne riparleremo nella successiva nota 23).

20Cosa questa che, se accertata, avrebbe giustificata la configurazione nei fatti della ipotesi attenuata di cui all’art. 73 c.5 D.P.R. 309/1990. Che in effetti venne poi ritenuta dal giudice.

21Mentre il decreto del GIP disponeva il rinvio a giudizio di tre imputati, il dispositivo faceva riferimento a un solo imputato, il Sai: la sparizione degli altri due imputati come si spiega? con una dimenticanza del giudice? No, si spiega col fatto che essi, profittando della possibilità loro offerta dall’art. 458, avevano chiesto e ottenuto il “giudizio abbreviato”: di conseguenza, la competenza a decidere la loro sorte era tornata al GIP; ma, si badi, non allo stesso GIP che li aveva rinviati davanti al tribunale, dato che questi, col fatto stesso di aver dichiarato l’evidenza della prova della loro colpevolezza, aveva manifestato “il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione” (sia pure non “indebitamente”, per cui, non era ricusabile ai sensi dell’art. 37 — però anche se non era ricusabile era pur sempre diventato “incompatibile”, ai sensi dell’art. 34, al “giudizio abbreviato”).

22Anche se forse nel caso mi sarei potuto limitare a impugnare la sola sentenza. Infatti la nullità del decreto di citazione, avendola io tempestivamente sollevata, rendeva (poco rilevando che l’eccezione mi fosse stata rigettata) nulla (per il 1° co. art. 185 c.p.p.) la sentenza. Così mi pare almeno: che ne dice chi mi legge?

23Anche il GIP, perché il decreto di irreperibilità emesso dal P.M. nel corso delle indagini preliminari aveva perso efficacia con la pronuncia del provvedimento con cui era stata definita l’udienza preliminare e disposto il rinvio del Sai a giudizio (v. co.1 art. 160 c.p.p.). Pertanto il GIP, dovendo notificare il decreto di citazione a Sai (in quanto non presente alla lettura del suo provvedimento — v. co.4 art. 429 c.p..), aveva dovuto disporre (per il co.4 art. 160 c.p.p.) nuove ricerche per poi pronunciare, a sua volta, il decreto di irreperibilità di cui all’art.159 c.p.p.

24Anzi, se ben ricordiamo, il giudice aveva manifestato, claris verbis, tale suo intendimento (dato che era un giudice che aveva per lungo stazionato nell’organico della magistratura requirente e aveva un carattere molto estroverso e franco: ciò che gli passava per la testa lo diceva). So che a questo punto il giovane collega inorridirà: ma come il giudice dice ecc. ecc. e tu, difensore, non lo ricusi? Che ci sta a fare l’art. 37 c.p.p.?! E sì, giovane collega, l’art. 37 esiste e senza dubbio permette di ricusare un giudice che esterna una sua convinzione di colpevolezza (“indebitamente”, vale a dire quando ciò non è richiesto dalla motivazione di un suo provvedimento); ma come fare comprendere ad un’anima bella come la tua, giovane collega, che la teoria è un conto e la pratica un altro?! L’articolo 37 è come quegli abiti che si mettono solo nelle feste: insomma, è buono solo per i grossi processi o anche per quelli piccoli in cui, però, siede sul banco degli accusati un incensurato, ma non per un processo in cui è imputato un Sai: si può essere sicuri che la Corte di Appello, a cui la ricusazione fosse stata presentata (art. 40 c.p.p.) avrebbe chiuso, non uno, ma tutti e due gli occhi per non accoglierla.

25Infatti né la lettera né la ratio dell’art. 468 c.p.p. impongono di anticipare al momento della presentazione della lista, la richiesta di una “ricognizione di persona” (né quella di un “confronto”, né quella di un “esperimento”).

26Ma quale la ragione di tale difficoltà, si domanderà lo studioso? Forse che non c’erano tra il pubblico due persone abbastanza somiglianti al Sai da potergliele affiancare? C’erano, ma non erano per nulla disposte a fare da “comparse”; questo soprattutto per il timore (a dir il vero infondato) di rappresaglie. Certo l’A.G. avrebbe potuto coattivamente chiamarle all’ufficio (a cui volevano sottrarsi — in base a quale articolo? in base all’articolo 650 C.P.); ma fece bene a non farlo: in fondo nella ricognizione la c.d. “comparsa” deve recitare una parte e la recita male se è costretta con la forza.

27Secondo l’interpretazione che mi sembra migliore, il P.M., entro le 48 ore, deve, non solo fare la richiesta, ma deve farla anche pervenire alla cancelleria del GIP (anche mediante fax, naturalmente).

28Co.1 art. 390. Si badi, il termine per il P.M. decorre dal momento dell’arresto o del fermo (mentre, invece, come vedremo, il termine posto al GIP per emettere la ordinanza di convalida decorre dal momento in cui “l’arrestato o il fermato è stato posto a disposizione del giudice” — cioè a disposizione del GIP stesso).

29E in effetti la Guardia di Finanza, contestualmente all’arresto, aveva (redigendo due separati verbali) operato il sequestro (ai sensi dell’art. 354) sia dei tabacchi esteri sia dell’auto in cui erano trasportati. Il sequestro era stato effettuato ai fini probatori (e non poteva essere diversamente, dato che il legislatore stabilendo che i poteri concessi dal co.2 art. 354 vanno esercitati dalla P.G. solo “se vi è pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nel comma 1 si alterino ecc. ecc.”, dimostra chiaramente di volerla autorizzare solo a un sequestro ai fini probatori). E il P.M. (a cui il verbale di sequestro era stato trasmesso ai sensi del co.1 art. 355) convalidando il sequestro (con riferimento ai motivi adotti dalla P.G. per effettuarlo) era come se avesse compiuto il sequestro giudiziario di cui all’art. 253.

Il confronto tra gli art. 253 e art. 257, da una parte, e l’art. 355 c.p.p., dall’altra, convincerà di ciò lo studioso: non vede che a decidere sull’opportunità e sulla validità del sequestro è competente nei due casi lo stesso organo? Non vede che, contro eventuali abusi di questo, la legge prevede la stessa difesa, cioè il ricorso al tribunale del riesame?

Stabilire questo era importante, perché il nostro codice, oltre a un sequestro giudiziario, contempla anche un sequestro conservativo (artt. 316 ss. c.p.p.) e un sequestro preventivo (art. 321) — sequestri (questi ultimi due) che sfuggono alla competenza del P.M.

Abbiamo ritenuto di evidenziare ciò, perché, come lo studioso vedrà, ciò che soprattutto premeva agli imputati era di ottenere il dissequestro dell’auto e pertanto tutta la causa fu “giocata” sul punto, legittimità, o meno, del sequestro.

30Mentre invece per le ordinanze dispositive di una misura cautelare (non emesse nel contesto di una procedura di convalida di arresto) con le relative richieste del p.m., il legislatore dispone il deposito (v. co.3 art. 293): è difficile comprendere il perché di tale differente disciplina.

31Ad esempio, perché tale responsabilità era fondata sul fatto che nella carrozzeria dell’auto erano state effettuate delle modifiche (utili per nascondere le cose contrabbandate); modifiche che gli imputati, se lasciati tornare nel possesso dell’auto, avrebbero potuto eliminare (con ciò stesso eliminando la prova della loro responsabilità).

32V. co.2 art. 321.

33E infatti a tale ricevuta mi avrebbe dato diritto il disposto del co.3bis art. 116.

34Ed il tribunale, puntuale nell’osservanza del co.5 art. 324, doveva essere, se voleva impedire la caducazione della misura cautelare (v. comb. disp. co.7 art. 324 e co. 10 art. 309).

35Ed, infatti, la legge doganale (D.P.R. 23.01.1973 n.439 nel suo art. 301) dispone, sì, la confisca dell’auto (adibita al contrabbando) anche se appartenente a persona estranea al reato, però tale confisca esclude (ecco il punto!) quando tale persona “dimostri di non averne potuto prevedere l’illecito impiego anche occasionale e di non essere incorsa in un difetto di vigilanza”. E’ importante rilevare, per la migliore comprensione di quel che in seguito diremo, che la legge doganale espressamente prevede la confisca anche in sede di pena patteggiata (derogando al disposto dell’art. 445 co.1).

Ecco ciò che dispone il citato art. 301: “Nei casi di contrabbando è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l’oggetto ovvero il prodotto o il profitto. Sono in ogni caso soggetti a confisca i mezzi di trasporto a chiunque appartenenti che risultino adattati allo stivaggio fraudolento di merci ovvero contengano accorgimenti idonei a maggiorarne la capacità di carico e l’autonomia in difformità delle caratteristiche costruttive omologate o che siano impiegati in violazione alle norme concernenti la circolazione o la navigazione e la sicurezza in mare. Si applicano le disposizioni dell’art. 240 del codice penale se si tratta di mezzo di trasporto appartenente a persona estranea al reato qualora questa dimostri di non averne potuto prevedere l’illecito impiego anche occasionale e di non essere incorsa in un difetto di vigilanza (...). Le disposizioni del presente articolo si osservano anche nel caso di applicazione della pena su richiesta a norma del titolo Il del libro VI del codice di procedura penale”.Vedi, sul punto, la precedente nota 11.

36C’è da dire che illo tempore il Legislatore apriva alla difesa la porta del giudizio abbreviato solo quando il P.M., esaurite le sue indagini, ne dava il consenso. Questo per il timore che la difesa, sfruttando il fatto che il P.M. non aveva ancora raccolte tutte le prove a carico, ottenesse una facile e immeritata assoluzione. Ora a tale pericolo il legislatore ha ovviato concedendo al GIP ampli poteri di integrare le indagini (incomplete) del P.M. (v. art. 441 co.5): quindi non ritiene più necessario il consenso del P.M.

37V. art. 453 co.1. c.p.p.

38L'ordinanza, stesa in calce alla mia istanza, diceva: “Il GIP Dott.ssa.....in sostituzione della dott.ssa.... - letta l'istanza che precede; ritenuto che il giudice competente ha ammesso l'imputato al rito abbreviato subordinato, ritenendo necessaria l'integrazione proposta; ritenuto che, pertanto, i documenti siano legalmente acquisiti al procedimento; ritenuto che in ordine alla traduzione dei documenti, che l'istante sostiene di non essere in grado di sostenere, dovrà provvedere il giudice competente nel corso dell'udienza – P.Q.M. - allo stato respinge l'istanza”.