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Promesse unilaterali

L’articolo 1987 (sotto la rubrica “Efficacia delle promesse”) recita: “La promessa unilaterale di una prestazione non produce effetti obbligatori fuori dei casi ammessi dalla legge”. Un preliminare chiarimento è imposto dalle equivocità dei termini usati dal legislatore.
Una “promessa” di per sé potrebbe essere anche quella con cui un soggetto vuole assumere un obbligo (non giuridico, ma) semplicemente, come si suol dire, “sul suo onore; ma, in un tal caso, che tale promessa non possa produrre effetti giuridici, risulterebbe dai principi elementari del diritto e non ci sarebbe bisogno che ce lo dicesse l’articolo 1987. Per dare un senso a questo articolo, quindi, bisogna interpretarlo come se esso, parlando di “promessa”, volesse riferirsi alla dichiarazione di volontà di un soggetto di assumere una vera obbligazione giuridica.

Per promessa unilaterale, poi, deve intendersi, quella che produce l’assunzione di obblighi solo per il promittente: il beneficiario di tali obblighi non assumendo, da parte sua, nessuna obbligazione – questo a prescindere dal fatto che l’efficacia della promessa sia subordinata, o no, al suo consenso1.

Tanto premesso, passiamo a esemplificare le tre principali forme, che può assumere una promessa unilaterale:

I- “Prometto che Domenica prossima scalerò il Cervino”;

II- Prometto che domani darò il bianco alla casa di Sempronio”;

III-”Prometto che, se tu, Sempronio, mi ritroverai quella dara res, ti darò tot”.

Domanda: perché il legislatore non spende la sua forza coattiva per costringere il promittente Caio ad adempiere le suindicate promesse? Risposta, o meglio risposte:

Nel caso della promessa sub I, tale “perché” è evidente: perché l’unica forma di coazione nel caso utilizzabile sarebbe quella di gravare Caio di un obbligo risarcitorio del danno, conseguente all’inadempimento della promessa, senonché, nel caso, non c’è nessuno, che potrebbe lamentare un tale danno.

Nei casi sub II e sub III, invece, ci sarebbe chi (evidentemente, Sempronio) potrebbe lamentare che, dall’inadempimento di Caio, gli è derivato un danno – e, allora, perché il legislatore non costringe Caio al risarcimento di tale danno? Ovviamente perché il legislatore non ritiene meritevole di tutela l’interesse di Sempronio, il beneficiario della promessa, al risarcimento (del danno conseguente all’inadempimento della promessa stessa). Ma perché il legislatore non ritiene meritevole di tutela tale interesse? Risposta, o meglio risposte: nel caso di cui alla promessa sub II, perché il legislatore ritiene che il sospetto, ben fondato dato il contenuto della promessa, che questa non fosse preceduta da un’adeguata riflessione, dovrebbe dissuadere ogni persona dabbene a chiedere il risarcimento del danno derivante dal suo inadempimento (tanto più che tale danno consisterebbe in un lucro cessante, lucro che Sempronio, se la promessa fosse stata mantenuta, avrebbe ottenuto senza nessuna sua fatica). Nel caso, poi, di cui alla promessa sub III, il perché il legislatore rifiuta il diritto al risarcimento del danno, va a mio parere visto, nel fatto che, il do ut des tra Caio e Sempronio, al legislatore, appare troppo sbilanciato, troppo asimmetrico: Caio rischierebbe di essere gravato da un obbligo risarcitorio nel caso non adempisse la “promessa”, invece, Sempronio nulla rischierebbe anche se nulla facesse. Ora questo tipo di rapporto asimmetrico tra le parti è ritenuto inammissibile dal legislatore (tanto è vero che, si vedano gli artt. 1326, 1328, il legislatore ritiene vincolato, il proponente di un contratto, alla sua proposta, solo dal momento2 che il destinatario di questa, accettandola, si è assunto anch’egli degli obblighi)3.

Il legislatore, dopo aver, nell’articolo 1987, posto la regola dell’inefficacia delle promesse unilaterali, passa a disciplinare, negli articoli 1988 e 1989, quelle che dovrebbero essere, nel suo pensiero, due eccezioni a tale regola.

Noi, siccome riteniamo che l’articolo 1988 non contenga in realtà nessuna eccezione alla regola de qua, passiamo subito all’esame dell’art. 1989 e seguenti, che disciplinano la “Promessa al pubblico”.

Questa effettivamente costituisce un’eccezione alla regola di cui all’art. 1987: infatti, come recita il primo comma dell’art. 1989, colui che “rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione, è vincolato dalla promessa non appena questa è resa pubblica” e l’articolo 1990 ammette, sì, la revoca della promessa ma “solo per giusta causa”. Il promissario, o meglio, i promissari, invece, non assumono nessun obbligo e neanche hanno l’onere di accettare la proposta; e ciò è giusto, infatti nel più dei casi, l’assumere degli obblighi sarebbe per loro imprudente, dal momento che il compimento della prestazione richiesta dal promittente4, é il più delle volte problematico – ciò che non significa, però, che i destinatari della promessa non facciano il tentativo di eseguire tale prestazione, e questo spiega perché questa possa essere revocata, sì, ma solo per giusta causa: infatti la revoca della promessa rischia di vanificare un lavoro, che potrebbe essere anche giunto vicino a un utile risultato e aver costato parecchio tempo e fatica5.

Domandiamoci: quale la ragione di questa eccezione alla regola dell’inefficacia delle promesse unilaterali? Ovviamente tale ragione va vista nell’utile funzione sociale che ha l’istituto della “promessa al pubblico” e infatti vi sono dei casi in cui una persona ha bisogno di una prestazione, ma non sa e comunque non è in grado di contattare chi le potrebbe dare tale prestazione6 e questo anche perché, come si è già accennato, l’esecuzione di questa prestazione ha in sé qualcosa di problematico e la gente non vuole uscire, per così dire allo scoperto, assumendo un’obbligazione, che poi rischierebbe di non poter adempiere, con la conseguenza di esporsi così a un obbligo risarcitorio. In tali casi la promessa al pubblico offre una soluzione vantaggiosa sia per il promittente che per i promissari.

Parliamo ora dell’articolo 1988 che, pur collocato nel titolo IV (che ha per rubrica “Delle promesse unilaterali”) non si riferisce (almeno necessariamente) a delle promesse unilaterali.

Ecco quello che tale articolo (sotto la rubrica “Promessa di pagamento e ricognizione di debito”) ci viene a dire: “La promessa di pagamento o la ricognizione di debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto sottostante. – L’esistenza di questo si presume fino a prova contraria”.

Ora, dalla semplice lettura dell’articolo, risulta, e mi pare chiaramente, che esso, contiene, sì, un’eccezione, ma non alla regola dell’inefficacia delle promesse unilaterali. Infatti, se Sempronio domanda al giudice di condannare Caio a pagare tot, producendo un documento in cui è scritto “Io Caio prometto di pagare a Sempronio tot”, ma Caio, in risposta a tale produzione, a sua volta produce un altro documento, da cui risulta che il pagamento che egli ebbe a promettere, ha la sua fonte in una promessa unilaterale, il giudice, lungi dal fare eccezione all’art. 1997, ritenuta l’inefficacia della promessa, respinge la domanda.

Quello che l’articolo 1998 stabilisce, quindi, non è una deroga all’art.1997, ma solo una relevatio ab onere probandi (a voler essere più precisi, una inversione dell’onere della prova). Ma l’articolo 1998 non contiene solo un’inversione dell’onere probatorio, esso stabilisce anche, direi soprattutto, un esonero dall’obbligo di allegare: allegare che cosa? La fonte del debito (di Caio): Sempronio può domandare la condanna di Caio senza aver l’onere di dire al giudice qual’è la fonte del debito di Caio.

Questa è l’eccezione che fa ai principi l’articolo 1998 ed è un’eccezione notevolissima, dato che i principi vorrebbero, che il giudice fosse posto a conoscenza di tutti i fatti, necessari a lui per prendere una decisione conforme a diritto. Ora tra tali fatti c’è senza dubbio la fonte degli obblighi, di cui si discute in causa. Perché? Perché tale fonte potrebbe essere una promessa unilaterale, che il giudice avrebbe il dovere di disapplicare, potrebbe essere un contratto viziato da una nullità, che il giudice ha l’obbligo di dichiarare, e questo solo per esemplificare.

Quale la ratio di tale eccezione ai principi? Evidentemente è quella di rendere più facile e quindi più sicura la realizzazione del credito.

Una vexata quaestio: la “promessa di pagamento” e la “ricognizione di un debito” sono atti che debbono essere fatti rientrare nell’istituto della confessione o in quello del negozio di accertamento? A nostro parere debbono farsi rientrare nella categoria del negozio di accertamento. Infatti, chi li compie, non afferma un fatto (come sarebbe se dicesse “Riconosco che Sempronio il giorno tal dei tali mi diede cento euro”), ma esprime un giudizio (comportante anche valutazioni di natura giuridica) sull’esistenza di un suo obbligo giuridico (quello di dover pagare tot a Sempronio). Pertanto le questioni che potrebbero porsi in merito alla validità degli atti de quibus (ad esempio la questione: è rilevante l’errore di diritto in cui, chi ha effettuato il riconoscimento, è caduto?) debbono essere risolte con gli stessi criteri, con cui vanno risolte analoghe questioni in materia di negozio di accertamento (sì, l’errore di diritto è rilevante perché deve applicarsi, metti, l’articolo 1969, e non l’articolo 2732).

 

1Ma mi rendo conto che quanto detto nel testo può non corrispondere all’opinione di molti Studiosi.

2E a dir il vero un po' più tardi di tal momento, cioè solo dal momento in cui, vedi art. 1326, il proponente ha “conoscenza dell’accettazione”.

3Chi, come noi - ritenendo che ci si possa trovare di fronte a una promessa unilaterale, anche quando la sua efficacia è subordinata al consenso del promissario, solo contando che, gravato delle obbligazioni, sia solo il promittente - ritiene che anche la donazione debba farsi rientrare in tale categoria (essendo l’obbligo agli alimenti che viene a gravare sul donatario, per l’art. 437, con l’accettazione della donazione un obbligo del tutto secondario e trascurabile), deve porsi la domanda: perché il legislatore dà cittadinanza all’istituto della donazione e riconosce efficacia a un contratto di donazione? Ebbene tale “perché” a noi sembra sia da ravvisarsi nel fatto che, l’esigenza di beneficare certe persone, sia insita nell’animo umano, e il legislatore ha ritenuto che la compressione di tale esigenza, ottenuta togliendo efficacia agli atti posti in essere con un animus donandi, sia inutile e comunque dannosa per la società.

4Prestazione che può consistere: nel ritrovamento di un oggetto, nella redazione di un libro, in un’invenzione (…..).

5Il nostro codice conosce un istituto assai simile alla promessa al pubblico: l’offerta al pubblico (art. 1336). A differenza di quanto è previsto per la “Promessa al pubblico”, chi fa l’offerta al pubblico, può revocarla discrezionalmente; e questa differenza si spiega: nel caso di offerta al pubblico l’unica fatica che il promissario fa è quella di accettare la offerta e quindi non c’è il pericolo che, prima della conclusione del contratto, spenda tempo e fatica (che la revoca dell’offerta renderebbe inutili).

6Questo è l’elemento, che caratterizza la promessa a incertam personam, e che giustifica la diversità della sua disciplina da quella della promessa a certam personam.