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Debiti pecuniari e principio nominalista. Debiti di valore e debiti di valuta

Il principio nominalista vuole che, se A si è obbligato il 1° gennaio a dare 10 pezzi di una data moneta (metti, 10 mila euro) alla scadenza del 31 dicembre e, nell’intervallo corrente tra il 1° gennaio (data di assunzione dell’obbligo) e il 31 dicembre (data di scadenza dell’obbligo), la moneta scelta come mezzo di pagamento si è svalutata (in gennaio con 10 mila euro si potevano comprare 10 quintali di soia, in dicembre se ne possono comprare solo cinque), A (nonostante tale svalutazione) si possa liberare del debito dando solo i 10 pezzi di moneta (i 10mila euro) promessi in gennaio, anche se il suo creditore in tal modo riceverà, sì, una quantità di moneta che, guardando al nomen (al numero) che la marchia, è uguale alla promessa, ma in realtà riceverà, guardando al suo valore (alla sua capacità di acquisto), solo una sua metà.
Ci aiuterà a comprendere i pro e i contro, che l’adozione del principio nominalista (invece del principio valorista) comporta, l’esame critico di alcune fattispecie.

I) Prima fattispecie: Caio nel gennaio vende a Sempronio il bene A, diventando così suo creditore del prezzo di 10 mila euro, con cui progetta di comprare il bene B (B infatti costa 10 mila euro). Alla scadenza del credito, però, il prezzo di B è schizzato da 10 mila a 20 mila euro: pertanto, lo scopo per cui Caio ha venduto A, rimarrebbe frustrato, s’egli riscuotesse da Sempronio solo 10mila euro. Domanda: é giusto ed opportuno riconoscere, in considerazione di ciò, a Caio il diritto a un credito (verso Sempronio) di 20 mila (anziché di soli 10 mila)?
No, e per almeno due motivi: primo, perché Sempronio (il debitore), quando ha comprato A, ha fatto senza dubbio certi calcoli (compro A a 10 mila e lo rivendo a 11 mila e col ricavato ecc.) e tali calcoli non é giusto se li veda sballare1 dall’errore di previsione commesso dal suo creditore (peggio per lui se non ha previsto che il bene B sarebbe aumentato di prezzo!). Secondo (motivo), perché, se, ragionando ad absurdum, l’ordinamento giuridico accogliesse il principio che un creditore può pretendere, non la quantità di pecunia illo tempore convenuta, ma tanta quanta gliene occorre per il raggiungimento degli scopi che, col realizzo del credito, si proponeva illo tempore di raggiungere, si verrebbero a gravare i tribunali di interminabili e difficilissime controversie (forse che é facile stabilire quali scopi il creditore si proponeva di realizzare? si pensi solo a questo!)2.

II) Seconda fattispecie: Caio nel gennaio 2003 vende a Sempronio il bene A (metti un’auto) e diventa così creditore verso di lui di 10 mila euro scadenti nel dicembre – euro con cui progetta di campare la vita nell’anno 2004 (comprando i beni B, C, D, E...)3. Durante il corso del 2003, la moneta si svaluta del 100 per 100 (e ciò significa che aumenta del doppio il costo, non solo dei beni che servono a Caio, il creditore, ma anche di quelli che servono a Sempronio, il debitore: questa é la differenza tra questo e l’esempio precedentemente fatto!). Domanda: sarebbe giusto e opportuno riconoscere a Caio il diritto ad avere il doppio della somma prima pattuita? La domanda merita una risposta negativa, ma per motivi diversi a seconda dell’utilizzo che il compratore-debitore Sempronio ha fatto del bene A (acquistato dal creditore-venditore, Caio). Sempronio ha fatto un uso personale del bene (egli, che aveva in cassa 30 mila euro, 10 mila li aveva destinati all’acquisto per suo diporto dell’auto di Caio e 20 per campare la vita nei 2004)? in tal caso rivalutare il suo debito del doppio (paghi egli non più 10 ma 20) significherebbe certamente risolvere il problema (economico) di Caio (che avrebbe cosi i 20 mila euro a lui necessari per campare nel 2004) ma... trasferendolo tutto intero a Sempronio, il quale si troverebbe ad avere (per campare nel 2004), non più 20 mila euro (quei 20 mila euro da lui “messi da parte” al momento di comprare il bene A), ma solo 10 mila euro4. E’ chiaro, quindi, che, nel caso, non vi sarebbero ragioni per concedere la rivalutazione del credito (di più: ce ne sarebbe una per non concederla: punire la mancanza di preveggenza di Caio: egli doveva prevedere la svalutazione e, nel fissare il prezzo, di essa doveva tenere conto!). E nel caso in cui Sempronio ebbe a comprare il bene A (a 10 mila euro), non per utilizzarlo per sé, ma per rivenderlo (a 11 mila euro)? In tale ipotesi si potrebbe ben pensare ch’egli sia riuscito a rivendere il bene al doppio del progettato (non più 11 mila euro, ma 22 mila euro)5: di conseguenza, nell’ipotesi, potrebbe sembrare giusto scaricare su di lui il peso della svalutazione: infatti, riconoscendo a Caio un credito di 20 mila, gli si permetterebbe di campare la vita e, obbligando Sempronio a dare 20 mila, non gli si impedirebbe di realizzare il lucro sperato6. Dunque non vi sarebbero nell’ipotesi ragioni per negare la rivalutazione? Al contrario ce ne sarebbe una e fondamentale ed é che, rivalutare il credito di Caio, significherebbe (il più delle volte) contraddire lo scopo per cui la svalutazione della moneta é stata dallo Stato decisa. Non é infatti che uno Stato decide la svalutazione senza un motivo; e questo motivo è (il più delle volte) quello di attuare uno spostamento di ricchezza da una categoria sociale all’altra (da A, proprietario terriero, a B, industriale, ad esempio), spostamento che chiaramente con la rivalutazione dei crediti si impedirebbe7.

Le ragioni sopra esposte già di per se giustificherebbero l’applicazione del principio nominalistico (in pratica, il rifiuto della rivalutazione del debito). Ad esse peraltro ne va aggiunta un’altra veramente risolutiva (e valida qualunque sia il motivo per cui Sempronio si era indebitato e qualunque fosse lo scopo a cui Caio destinava il realizzo del suo credito) ; e questa ragione é data dal fatto che, se si ammettesse o no la valorizzazione dei crediti in considerazione dei motivi che hanno indotto le parti ad accordarsi (l’una, assumendo un debito, e, l’altra, accettando di dare a credito), si finirebbe per gravare i tribunali di difficili (e quindi interminabili) controversie. Tutto quanto detto spiega perché il nostro Legislatore (come quasi tutti i legislatori!) adotti nella materia dei debiti pecuniari il principio nominalistico. Come risulta dall’art. 1277 che (nel suo comma 1) recita: “I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale” (il corsivo è naturalmente nostro)8.

Noi abbiamo finora ragionato con riferimento ad una fattispecie in cui una persona (Sempronio) negozialmente si era assunta un debito pecuniario9. Però la questione

– se, la quantità di pecunia necessaria per l’estinzione del debito, vada determinata con riferimento al momento in cui é sorto il debito o a un momento posteriore (e in questo secondo caso, ovviamente, con riferimento, non al valore nominale della moneta10, ma a un quid di diverso)11 – si presenta anche per fattispecie in cui il debito non ha fonte negoziale. Si pensi al caso di Sempronio che, in un incidente stradale, distrugge l’auto di Caio: certo Sempronio dovrà dare a Caio i soldi occorrenti per comprarsi un’altra auto, ma, ecco il punto, tanti soldi quanti ne occorrevano, per comprare l’auto, al momento dell’incidente o al momento, a questo posteriore, della liquidazione? Si pensi ancora al caso in cui Caio ha indebitamente pagato 10 mila euro a Sempronio: certo Sempronio dovrà restituire gli euro a Caio, ma dovrà restituirli per la quantità che ha ricevuta o, se c’e stata svalutazione della moneta, per la quantità maggiore ottenuta in base a una rivalutazione (che della svalutazione tenga conto)? Si pensi infine al caso in cui Sempronio abbia ricevuto in donazione dal padre 10 mila euro: certo alla morte di questi dovrà collazionare tali euro, ma anche qui nella quantità ricevuta o nella quantità rivalutata?

Nella soluzione di tali questioni entrano in gioco motivi e considerazioni diversi da quelli da noi accennati, esaminando il caso del compratore, che deve pagare al venditore il prezzo ecc. E, per dare un’idea di qual genere, tali motivi e considerazioni, possano essere, passeremo ora all’esame di due fattispecie, che riteniamo emblematiche.

Prima fattispecie: Sempronio nel gennaio 2002 ha distrutto colposamente l’auto di Caio: quando nel dicembre del 2003 si procederà (finalmente!) alla liquidazione del danno, il risarcimento dovuto si dovrà determinare con riferimento al prezzo dell’ auto nel gennaio 2002 o nel dicembre 2003?

Risposta: si dovrà determinare con riferimento al dicembre 2003; e ciò per (almeno) due buoni motivi: 1) perché in caso contrario si incentiverebbero tattiche dilatorie del debitore (Sempronio, se il risarcimento fosse stabilito nei 10 mila euro occorrenti a comprare un’auto nel 2002, avrebbe tutto l’interesse ad allontanare il tempo della liquidazione del debito e del pagamento perché, più il tempo passa, più la svalutazione riduce il valore di tali 10 mila euro) ; 2) perché facendo ricadere il peso della svalutazione sul creditore-danneggiato, e così riducendo il debito del danneggiante, si ridurrebbe anche l’effetto dissuasivo, che la minaccia del risarcimento ha su (altri) potenziali danneggianti (quisque de populo vedendo che Sempronio, grazie alla svalutazione, si é salvato dalle conseguenze della sua disattenzione con pochi euro, sarebbe portato... a essere meno attento nella guida)12.

Seconda fattispecie: Sempronio ha ricevuto indebitamente da Caio mille euro nel gennaio 2002: quando nel dicembre 2003 restituisce l’indebito percepito (art. 2033) potrà limitarsi a restituire mille euro o dovrà restituire mille euro rivalutati in base al calcolo della svalutazione della moneta? Risposta: potrà limitarsi a restituire mille euro: far ricadere il peso della svalutazione sul creditore (Caio), e non sul debitore (Sempronio), appare qui preferibile, perché é proprio il patrimonio del debitore che subisce lo choc della (di solito inopinata e imprevista) “sottrazione” di una somma (sia pure indebitamente ricevuta) e appare giusto ridurre l’entità di tale choc13.

In conclusione si deve ritenere che il nostro Ordinamento, in via di principio, ammetta solo debiti di valuta; ma, in via eccezionale, riconosca anche debiti di valore14 (lasciando, ahime! al giudice il difficile compito di stabilire quando tali eccezioni si verifichino)15.

1E certamente ciò accadrebbe se dovesse dare al suo creditore 20mila euro (anziché i convenuti 10mila).

2Già da quanto detto nel testo risulta che noi negheremmo l’applicabilità alla fattispecie in esame dell’art. 1467 (risoluzione per eccessiva onerosità). Forse é il caso qui di anticipare (anticipare, ripetiamo, perché la fattispecie, che per ora ci siamo soffermati a esaminare, non é ancora di vera e propria svalutazione monetaria), che in via di principio “attualmente non si dubita dell’applicabilità dell’art. 1467 c.c., in caso di svalutazione o deprezzamento della moneta” – sul punto cfr. FULVIO MASTROPAOLO (Obbligazioni pecuniarie, capo V del comma Obbligazione, vol XXI, Enc. giur., Roma, 1991, parag. 10-7, p. 19). Tuttavia – avverte sempre il MASTROPAOLO (ibidem) – proprio la “normalità” dell’inflazione, che ha cessato di essere un avvenimento straordinario e imprevedibile, ha paradossalmente ridimensionato l’applicabilità dell’art. 1467 cc., che resta circoscritta ad evoluzioni del tasso di deprezzamento monetario, tali da non poter essere prevedute neppure secondo accorti e prudenti-calcoli”. Cfr. sul punto anche Irti N., Inflazione e rapporti tra privati, in Rass. giur. Enc., 1980, 724 ss.

3Metti: pasta, latte, pane, formaggio

4Egli aveva, in ipotesi, 30 mila euro: se si detraggono da essi 20mila (e non più solo 10mila) euro come prezzo del bene A,non ne restano che 10mila. Esprime dubbi “in ordine alla stessa possibilità razionale di un principio di “valorismo” generalizzato operante in forma automatica, apparendo invece indispensabile, affinché talune categorie di creditori possano godere del beneficio del “valorismo”, che, in qualche parte, esistano categorie di creditori cui tale beneficio venga negato” – CARBONNIER, Droit civil, t. 3, Les biens, Paris, 1973, p. 267, 33; cfr. sulla citazione, A. DI MAJO (Obbligazioni pecuniarie, in Enc. dir., XXIX, 1979, p. 246).

5E infatti la svalutazione come aumenta il costo dei beni, che Caio vuole comprare, così aumenta il costo del bene venduto da Caio a Sempronio e che questi rivende.

6Infatti Sempronio, in ipotesi, realizzerebbe 22mila dollari, dalla rivendita del bene, conseguendo cosi un lucro di 2mila (22mila del prezzo ricavato meno 20mila da dare a Caio è uguale a 2mila) che corrisponde (in potere d’acquisto) al lucro di mille (prima preventivato).

7Al proposito sono interessanti e illuminanti le osservazioni di Ascarelli (Obbligazioni pecuniarie, in Delle obbligazioni, libro IV del Commentario del cod. civ., a cura di Scialoja-Branca, 1959, Bologna-Roma, p. 290). L’Ascarelli – dopo aver rilevato che “in una economia di credito” “diversamente di quanto avviene in civiltà primitive” gli imprenditori sono “debitori di danaro nei confronti di quel pubblico di risparmiatori i cui risparmi monetari sono incanalati verso gli imprenditori, direttamente ovvero attraverso le banche e gli istituti di finanziamento” – cosi prosegue: “Questa considerazione può forse indurre a riflettere sull’effetto della svalutazione in una economia di credito : in questa, la svalutazione, operando a favore degli imprenditori, opera a favore dei gruppi che sono debitori di somme di danaro e tuttavia poi, attraverso la proprietà o il controllo di beni materiali, dispongono delle maggiori fonti di ricchezza. Può così rilevarsi la diversa portata sociale di una svalutazione o di un deprezzamento della moneta secondo le diverse strutture economiche. In una economia a scarso sviluppo del credito, la svalutazione costituisce una misura invocata per alleviare la situazione delle classi meno abbienti, oberate di debiti di consumo (...); (invece) svalutazione e deprezzamento cooperano, sull’inizio di una evoluzione capitalistica, alla vittoria delle giovani classi imprenditrici (e che, come sempre gli imprenditori, sono debitrici di denaro) sulle aristocrazie feudali (...).

8L’articolo 1277, come risulta chiaramente dalla sua formulazione, oltre che il principio nominalistico, “stabilisce indirettamente”, col sancire l’effetto liberatorio del pagamento eseguito “con moneta avente corso legale nello Stato”, “anche l’obbligo di accettazione della moneta legale”. Questa regola “rappresenta la proiezione civilistica di un principio di ordine pubblico monetario” “che trova la sua sanzione (un tempo penale ora solo amministrativa) nell’art. 693 c.p.” (che recita: “Chiunque rifiuta di ricevere, per il loro valore, monete aventi corso legale nello Stato é punito ...”). Sul punto cfr. BRUNO INZITARI (Obbligazioni pecuniarie, Nuovo Digesto – diritto civile, p. 469).

9E non abbiamo fatto ciò a caso: infatti i debiti ex negotio costituiscono la categoria più ampia e più indiscussa di debiti di valuta (idest, di debiti la cui soluzione avviene secondo il principio nominalistico). E non manca chi, come ASCARELLI (Obbligazioni pecuniarie, cit., p. 481), ritiene addirittura che “il discrimen tra debiti di valuta e debiti di valore passi attraverso il filo della distinzione tra debiti ex negotio e debiti ex lege” — cfr. per la citazione A. De MAJO (Obbligazioni pecuniarie, in Enc. dir. XXIX, 1979, p. 268).
E senza dubbio per i debiti ex negotio si può parlare di una consapevole (anche se più o meno forzata ) assunzione del rischio della svalutazione da parte del creditore e giustificare con ciò la mancata rivalutazione del debito. Vero é che la qualificazione di un debito come di valuta (e non di valore) si può fondare, come vedremo subito, anche su considerazioni diverse dalla assunzione consapevole del rischio.
Ritiene “semplicistico e riduttivo” trovare la giustificazione del carattere valutario (e non valoristico) di un debito nella “consapevole assunzione di rischio”, essendo invece essa da individuare in “ragioni che investono la struttura (e l’evoluzione) dei rapporti di scambio”, A. Di MAJO, Obbligazioni pecuniarie, cit., p. 268

10Se non altro perché, almeno per alcune fattispecie che andremo ad esaminare, il debito quando sorge è illiquido (cioè non determinato nella quantità), per cui, anche volendo, non si potrebbe per loro fare applicazione del principio nominalistico.

11Che, nel caso della problematica che andiamo ad esaminare, sarà la capacità di acquisto della moneta, ma che in altri casi potrebbe essere anche: una moneta estera, l’oro, l’argento

12Il motivo indicato sub 1 (ma ovviamente non quello indicato sub 2) potrebbe anche spiegare “ la tesi che assegna all’indennità dovuta per i miglioramenti (artt. 975, 985, 1150) natura di debito di valore” – sul punto cfr. A. Di MAJO, Obbligazioni pecuniarie, cit., p. 272.

13A. Dl MAJO (Obbligazioni pecuniarie, cit., p. 269) fa presente che, per quel che riguarda “la vasta serie di debiti di restituzione (di somme) derivanti da contratto nullo, annullato, rescisso o risolto”, “ad un primitivo indirizzo giurisprudenziale che considerava tali debiti, di valore, é suben trato indirizzo di segno contrario, e ormai incontrastato dominatore del campo, secondo cui tali debiti vanno ascritti alla categoria dei debiti di valuta”.

14In altre parole il “nominalismo”, come soluzione “intrinsecamente congeniale ed omogenea ad un sistema di scambi in una economia capitalistica”, esiste nel nostro ordinamento come principio fondamentale, ma “tale principio convive e coesiste con l’adozione di sistemi di “valorismo” parziale, e operanti in forme automatiche o semi-automatiche” – cfr. sul punto A. DI MAJO (Obbligazioni pecuniarie, cit., p. 247).

15Forme di rivalutazione giudiziale dei crediti vi sono state, dove più dove meno, in pressoché tutti gli ordinamenti giuridici. Ma comune é la diffidenza nei loro confronti. Si ritiene, infatti, che esse possano essere o causa od occasione di insicurezza nelle contrattazioni” (cosi A. DI MAJO, Obbligazioni, op. cit., p. 256) e che in definitiva possano risolversi “in una disordinata distribuzione di oneri e vantaggi che si traduce in un profondo turbamento della vita associata” (tale giudizio é di ASCARELLI, Obbligazioni pecuniarie, cit., p. 331).