Enciclopedia giuridica del praticante

 

Lezioni su Diritto di Famiglia - II

Lezione IX: L’oggetto della comunione legale.

Doc. Dobbiamo ora trattare della comunione legale, regime che trova la sua disciplina nella sezione terza, artt. 177 e segg.

E, per cominciare, parliamo dei beni che cadono in questo tipo di regime.

Disc. Cioé dei beni che i coniugi hanno in comunione.

Doc. No, e questo é un equivoco da chiarire subito: i beni in comunione legale (ai sensi degli artt. 177 e segg), sono cosa ben diversa dei beni in comunione ordinaria (ai sensi degli artt.1100 e segg). Certo, i coniugi ben possono avere beni in comunione (ai sensi degli artt. 1100 e segg.) e, addirittura, come possono avere beni personali accanto a dei beni in comunione legale (ti ricordi quel che noi si era detto in una precedente lezione?), così, accanto a dei beni in comunione legale, possono avere beni in comunione ordinaria (ai sensi degli artt. 1100 e segg.), però i primi vanno tenuti ben distinti dai secondi, dato che, come vedremo, i poteri di amministrazione e di disposizione, e i poteri di esecuzione, che gli artt. 177 e segg. riconoscono rispettivamente ai coniugi e ai terzi creditori, sono diversi da quelli che loro riconoscono gli artt. 1100 e segg.. Insomma, il concetto di bene oggetto di una comunione ordinaria, é ben diverso da quello di bene oggetto di una comunione legale.

Disc. Ma, se così é, e se, come é inevitabile, nel prosieguo della trattazione ci dovremo porre la questione, se questo o quel bene sia “oggetto della comunione legale”, non sarebbe logico cominciare a dire quali poteri hanno i coniugi e i terzi creditori rispetto a un “bene oggetto di comunione legale”? Altrimenti rischiamo di trovarci nella stessa situazione di quel studente, che doveva dire se un dato fiore era o no una gardenia, quando ancora nessuno gli aveva spiegato che tipo di fiore é la gardenia

Doc. Seguire quest’ordine nella trattazione forse sarebbe logico; ma tale ordine noi non seguiremo perché, tutto sommato, valutati i pro e i contro, riteniamo più utile alla comprensione dell’argomento seguire l’ordine adottato dal Legislatore; il quale, appunto, prima, parla dei beni oggetto della comunione e, poi, dei poteri e diritti che su di essi hanno i coniugi e i terzi creditori. Del resto, ti sarà facile seguire i discorsi che farò, solo che tu temporaneamente tenga presente questa equazione: bene in comunione legale = a bene di cui un coniuge non ha quella libera disponibilità, che ha invece sui beni rientranti nel suo patrimonio personale.

Disc. Se così, cominciamo a dar lettura dell’articolo con cui si inizia la sezione, l’art. 177, che recita: “Costituiscono oggetto della comunione legale: a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio ad esclusione di quelli relativi ai beni personali; b) i frutti dei beni.......

Doc. No, fermati alla lettera a) e al primo comma, dato che le altre lettere del primo comma e il secondo comma costituiscono solo delle deroghe o dei chiarimenti alla regola espressa nella disposizione contenuta nella lettera a).

Disposizione che peraltro da sola già ci dice il limite e la ratio del regime che dobbiamo esaminare

Cominciamo a dire del “limite”: la comunione legale non ha per oggetto tutti i beni dei coniugi, ma solo i beni da loro acquistati dopo la costituzione della comunione stessa: se Caio e Caia, al momento della costituzione della comunione, avevano in proprietà (o in usufrutto.. .insomma, per usare un termine non tecnico ma spero chiarificatore, “possedevano”) l’uno, il bene A, e, l’altra, il bene B, ebbene il bene A e il bene B continuano, anche dopo, a essere di loro esclusiva proprietà, non cadono in comunione; in questa verrebbe a cadere, invece, l’appartamento, metti, che Caio o Caia separatamente, oppure, Caio e Caia congiuntamente, acquistassero dopo la costituzione della comunione.

Disc. Ma non é illogico questo limite, questo limitare la comunione solo agli acquisti? Infatti, se veramente il matrimonio fosse una “comunione spirituale e materiale” tra i coniugi, come abbiamo visto lo vuole il Legislatore,sarebbe logico che i coniugi mettessero tutti i loro beni in comune.

Doc. Quel che tu ritieni logico, il Legislatore non l’ha ritenuto opportuno, per timore che le persone, trovando troppo pesante rinunciare alla proprietà di tutti i loro beni, rinunciassero tout court a quel regime di comunione legale, a cui altrimenti si sarebbero di buon grado sottomessi.

Disc. Bene, hai detto del “limite”, ora dì della ratio dell’istituto.

Doc. Come risulta dai lavori preparatori, la ratio, lo scopo dell’istituto (più in particolare, lo scopo di far cadere in comunione gli acquisti) é quello di tutelare il coniuge “debole”, che nella nostra società era, e sia pure in misura minore ancora é, la donna – la donna a cui la Società al momento del matrimonio, imponeva, e ancora sia pur in minor misura impone, di rinunciare a un impiego o alla professione, la donna che nella casa, nel negozio, nell’azienda del marito svolgeva, e ancora spesso svolge, un’attività silenziosa, ma preziosa, per permettere al marito quei guadagni di cui però rischia di non avere nessuna parte. No, questo non é giusto, ha ritenuto il Legislatore, e, con la normativa di cui ora ci dobbiamo occupare, ha voluto porre rimedio a tale ingiustizia, stabilendo che gli acquisti fatti durante il matrimonio (melius, durante la vigenza del regime di comunione), e quindi (presumibilmente) frutto della paritaria collaborazione dei due coniugi, spettino al cinquanta per cento a ciascuno di essi.

Disc. Ed effettivamente non sarebbe per nulla giusto che non avesse la metà dei guadagni il coniuge che non ha svolto, sì, direttamente l’attività fonte di lucro, ma indirettamente l’ha resa al 50% possibile (la moglie che prepara al marito il pasto buono e caldo che gli darà le forze di vincere le sue battaglie nell’arengo economico). Questo, però, se il successo dell’attività lucrativa, fosse effettivamente dovuto al cinquanta per cento alla collaborazione del coniuge “debole”; il che non può certo sempre dirsi: Berlusca é un “genio degli affari” e ha accumulato una ricchezza: perché metà di questa dovrebbe spettare alla moglie che, mentre lui sgobbava e rischiava, passava il tempo a giocare a canasta?!

Doc. Quel che dici può essere giusto; ma in subiecta materia vale più che mai il brocardo adducere inconvenientem non est argumentum: l’applicazione di ogni legge può in certi casi rivelarsi ingiusta, ma ciò non autorizza il giudice a non applicarla.

Disc. Però, potrebbe essere la stessa legge ad autorizzare il giudice a una intelligente deroga nei casi in cui ciò corrisponde a giustizia.

Doc. Come si può pensare di gravare i nostri Tribunali – che già rischiano di cadere sotto il peso di un carico giudiziario opprimente – dell’ulteriore incombente di accertare se Caia ha dato, o no, una collaborazione valida e quanto valida al marito?

Ciò non si può neanche pensare!

D’altra parte, il fatto stesso che i coniugi accettino che i loro rapporti patrimoniali siano regolati da un regime che contempla la caduta in comunione degli acquisti (e di conseguenza, come vedremo meglio in seguito, la divisione a metà degli acquisti all’estinguersi di tale regime), non é già una prova che essi ritengono che, l’efficacia della loro collaborazione nella produzione di tali acquisti, sia paritaria? e chi, di loro, miglior giudice?

Disc. Se tale é la ratio dell’istituto, se, cioé, il legislatore intende far cadere in comunione i beni, che presumibilmente sono frutto della collaborazione dei coniugi, penso che si debba concludere che cadono in comunione tutti gli acquisti avvenuti dopo la costituzione della comunione stessa (rimanendo così esclusi dalla comunione solo quei beni che i coniugi, al momento di tale costituzione, già possedevano).

Doc. In realtà non é così: il legislatore esclude dalla comunione (dalla comunione tout court o dalla così detta comunione immediata – concetto che poi ti chiarirò)anche beni che, a rigore, dovrebbero presumersi frutto della collaborazione dei coniugi.

Disc.Che cos’é che giustifica per il Legislatore questa deroga alla regola da lui enunciata nell’articolo 177?

Doc. La necessità di non mortificare l’iniziativa economica dei coniugi e di non comprimere la loro personalità.

Pertanto, se volessimo racchiudere in una formula, un criterio per stabilire quando un bene va fatto rientrare nella comunione legale, potremmo dire che:

“Un bene va fatto rientrare nella comunione legale, quando:

A) rappresenta una nuova ricchezza e una nuova ricchezza prodottasi dopo la costituzione della comunione;

B) é frutto di una attività lavorativa, sia pure inteso quest’ultimo termine in senso lato;

C) la sua destinazione alla comunione non viene a mortificare l’iniziativa economica del coniuge (alla cui attività va direttamente dovuta la sua acquisizione);

D) la sua destinazione alla comunione non viene a comprimere la personalità del coniuge (che lo detiene)”.

Disc. Ti confesso che la formula da te proposta mi risulta un po’ vaga, ma spero che assumerà concretezza nel commento delle varie disposizioni di legge.

Cominciamo quindi dalla lettera a) art. 177, che ho già letta: che puoi aggiungere a suo commento?

Doc. Prima di tutto devo segnalare un lapsus in cui il Legislatore é caduto: là dove é scritto “acquisti compiuti........ durante il matrimonio”, deve leggersi “acquisti compiuti....durante la vigenza del regime di comunione legale”. E infatti, se Caio e Caia: il primo gennaio 2005 si sposano, adottando il regime di separazione dei beni; nel 2006 acquistano un appartamento; e nel 2007 optano per il regime di comunione legale, non é che l’appartamento acquistato nel 2006 cade in comunione: ciò é pacifico, come é pacifico che il Legislatore sia caduto in un lapsus.

Disc. E la esclusione (dalla comunione) dei “beni personali” come si spiega?

Doc. Secondo alcuni, con una precisazione alla....lapalisse, che il Legislatore non si é potuto trattenere dal fare: insomma il legislatore avrebbe sentito il bisogno di chiarire che “sono esclusi dalla comunione, i beni che già Egli nell’articolo 179.....esclude dalla comunione”.

Però, l’interpretazione, che porta ad attribuire al Legislatore un’assurdità, va accettata solo come extrema ratio, cioé quando non sia possibile altra interpretazione; che nel caso é invece ben possibile: e infatti si può interpretare l’esclusione voluta dal Legislatore come riferita a quelle “addizioni” (nel senso dell’articolo 1593) o “accessioni” (nel senso degli artt. 934 e segg), che un coniuge potrebbe fare sui suoi “beni personali”: pensa a Caio che nella casa, che già possedeva al momento della costituzione della comunione, innalza un altro piano o costruisce una veranda o più semplicemente installa un idromassaggio.

Disc. Come si giustificherebbe questa deroga?

Doc. Si giustificherebbe con la difficoltà che si avrebbe, quando la comunione fosse sciolta e si dovesse procedere alla divisione dei beni, ad operare la divisione rispetto alla “addizione” o “accessione” (certo il piano innalzato da Caio non lo si può attribuire altro che a Caio, ma come determinarne il valore? questa é cosa per nulla facile e che comunque rappresenta una complicazione, che il Legislatore vorrebbe, secondo l’interpretazione proposta, evitare).

Detto questo, é opportuno, per ragioni di più sistematica esposizione della materia, per ora saltare la restante parte dell’articolo 177, e dare lettura della lettera a) dell’articolo 179 (articolo che porta la significativa rubrica di “Beni personali”).

Disc. Leggo: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: a) i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di altro diritto reale di godimento”.

Doc. La categoria di beni personali prevista dalla disposizione ora letta é certamente la più ovvia: data la ratio dell’istituto della comunione, é ovvio che da questa vengano esclusi i beni, che già risultavano acquisiti nel patrimonio di un coniuge “prima del matrimonio” (rectius, prima della costituzione della comunione stessa): infatti, certamente tali beni non sono dovuti alla collaborazione dell’altro coniuge.

Se mai, risulta incomprensibile perché il legislatore limiti tale esclusione ai solo diritti reali e per di più ai soli diritti reali di godimento. Perché mai Caio dovrebbe trovare ostica la cosa di essere privato della proprietà personale su quell’appartamento di via Roma che ha il valore di solo 100, tanto ostica da fargli rifiutare il regime della comunione legale (non si dimentichi che é proprio il timore, che un coniuge rinunci tout court all’adesione al regime della comunione, a spingere il Legislatore a limitare i beni da far cadere in questa!), e senza batter ciglio dovrebbe invece aderire al regime della comunione, anche se l’aderirvi comporta la caduta in comunione di quel suo credito (metti del credito che vanta verso il Banco di Roma, per un conto corrente accesovi) che ha il valore di ben duecento? Tutto ciò é incomprensibile, tanto incomprensibile da imporre una interpretazione restrittiva della norma.

Disc. Chiarito questo, passiamo alla lettura della lettera b) sempre dell’articolo 179: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: b) i beni acquisiti successivamente al matrimonio, per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non é specificato che essi sono attribuiti alla comunione”.

Doc. Chiaro perché il Legislatore non fa rientrare nella comunione tali beni: se lo zio Beppe ha lasciato in eredità a Caio il bel appartamento di via Veneto, certo questo é “nuova ricchezza” che si aggiunge al patrimonio di Caio, ma é anche certo che tale “nuova ricchezza” non può essere attribuita alla attività (lavorativa!) di Caio - attività lavorativa resa possibile dalla collaborazione di Caia.

Disc. Ma Caia avrebbe potuto contribuire, a convincere lo zio Beppe a lasciare l’appartamento, rendendosi a lui simpatica.

Doc. Certamente, sì; ma ciò non rileverebbe per il Legislatore, che prende in considerazione la collaborazione dell’altro coniuge (per intenderci, del “coniuge debole”), solo in quanto questa collaborazione si esprime in una attività lavorativa: insomma in mente Legislatoris c’é, a spingerlo a ritenere giusta la comunione degli acquisti, non l’immagine di Caia, che, con delle coccole, ridà nuove energie al marito, ma l’immagine di Caia, che piega la schiena per lavare il pavimento e farlo trovare pulito al marito.

Disc. Comunque, se lo zio Beppe avesse lasciato il suo appartamento sia a Caio che a Caia, l’appartamento sarebbe caduto nella comunione legale.

Doc. Per nulla: esso sarebbe caduto solo nella comunione ordinaria di Caio e Caia: perché entrasse nella comunione legale, sarebbe occorso che lo zio Beppe “specificasse”, nella scheda testamentaria, la sua precisa intenzione che il bene cadesse in comunione legale.

A questo punto, salta per il momento le lettere c) e d) e passa a leggere, prima, la lettera e) e poi la lettera f). Il motivo di ciò te lo chiarirò dopo.

Disc. Leggo la lettera e): “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali: e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa”.

Doc. Se Caio riceve 100 da Sempronio, a titolo di risarcimento del danno da questi causatogli, metti, incendiandogli la casa, é chiaro che tale somma non aumenta per nulla il patrimonio di Caio, non costituisce per lui “nuova ricchezza”, ma solo una reintegrazione della “vecchia ricchezza”.

Questo ragionamento che fila bene per il risarcimento alle cose, diventa invece zoppicante quando é riferito al risarcimento alla persona per la perdita della sua capacità lavorativa.

Disc. Perchè?

Doc. Perché quei 100 che Caio riceve, metti, nel 2005, a titolo di risarcimento della sua capacità lavorativa, in realtà rappresentano la capitalizzazione di quel reddito lavorativo di 10 che avrebbe potuto procurarsi nel 2006, di quel redditto ancora di 10 che avrebbe potuto procurarsi nel 2007 e così via. Ora “i proventi dell’attività separata di ciascun coniuge”, come vedremo commentando la lettera c) dell’articolo 177, anche se non cadono subito in comunione, vi cadono quando questa si scioglie,

cioé per usare una terminologia tecnica, non cadono in “comunione immediata”, ma pur sempre cadono in “comunione de residuo”.

Disc. Quindi ci si sarebbe dovuti aspettare che il Legislatore facesse cadere tale risarcimento, non nel patrimonio personale di un coniuge, ma nella “comunione de residuo”: perché non lo fa?

Doc. Probabilmente per evitare la complicazione dei calcoli a cui ciò darebbe luogo: rifacciamoci all’esempio prima fatto: Caio, avuto nel 2005 un risarcimento di 100, mette questi 100 in banca e, dopo due anni, nel 2008, la comunione si scioglie (metti, perché Caio si é separato da Caia): certamente non sarebbe giusto che egli versasse tutti i 100: infatti, come egli non deve versare i guadagni che farà in futuro (dopo lo scioglimento della comunione: cioé, nel 2008, nel 2009..), così non é giusto che versi quella parte dei “100”, che rappresentano i suoi guadagni futuri: ma quale parte del risarcimento, da lui ottenuto nel 2005, rappresenta effettivamente i guadagni post-2007? Questo può essere difficile determinarlo, ed é probabilmente proprio la considerazione di tale difficoltà, che ha portato il Legislatore a non far rientrare nella “comunione de residuo”, le somme avute a titolo di risarcimento della perdita della capacità lavorativa.

Sed de hoc satis: passa a leggere la lettera f).

Disc. Lettera f) dell’articolo 179: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge. f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto”.

Doc. Chiaro che, se Caio vende il bene personale A, che vale 100, e con il ricavato acquista il bene B, che vale ancora 100, egli non fa altro che sostituire nel suo patrimonio il bene B al bene A; e l’acquisto del primo, quindi, non rappresenta una “ricchezza nuova”, che si aggiunge alla “vecchia”, e che, pertanto, vada fatta cadere in comunione.

Disc. Ma se Caio riesce a “scambiare” il bene personale A, che, al momento della costituzione del regime della comunione, valeva 100, con il bene B, che vale 200 (questo o perché il bene personale A col passare degli anni ha raddoppiato il suo valore o perchè l’abilità di Caio é riuscita a convincere la controparte a...scambiare il suo bene con un altro che ne vale la metà)? in tal caso, la “nuova ricchezza” (la nuova ricchezza rappresentata dal plus-valore di B rispetto ad A, quindi nell’esempio = a 200 – 100), che indiscutibilmente l’acquisto di B arreca al patrimonio di Caio, va fatta cadere in comunione?

Doc. La risposta che viene dalla lettera della norma é, no; e tale risposta é ben giustificata: in primo luogo, dalla difficoltà di provare il disvalore tra A e B; in secondo luogo, dalla considerazione che, pur se vi fosse l’acquisizione di un plus-valore, questa acquisizione non potrebbe dirsi dovuta ad un’attività lavorativa di Caio, che la collaborazione di Caia avrebbe resa possibile. (Diversa sarebbe la soluzione nell’ipotesi – ma non é l’ipotesi che il Legislatore fa nella norma che abbiamo in esame – che Caio, di professione facesse l’agente immobiliare e la sua attività lavorativa proprio consistesse nell’acquistare immobili, tenerli un po’, e, poi, rivenderli a maggior prezzo).

Disc. Caio ha acquistato il bene B con il prezzo della vendita di A, però, al momento dell’acquisto, ha omesso di dichiarare, che i soldi, per questo acquisto, gli venivano dalla vendita di A: in tal caso il bene B cade in comunione (e questo senza dar la possibilità a Caio, ripresosi dal lapsus o dalla distrazione, di fare, metti il giorno dopo, quella semplicissima dichiarazione che impedirebbe la, da lui non voluta, caduta di B nella comunione): perché mai?!

Doc. Perché vi é un’esigenza di certezza dei terzi, che il Legislatore non può esimersi dal soddisfare; e immediatamente, perché, già subito dopo l’acquisto di B, possono esservi creditori della comunione, che hanno necessità di sapere, se B rientra in questa, per decidere se possono soddisfarsi, o no, su B; già vi possono esserci potenziali acquirenti da Caio, che hanno necessità di sapere se B é, o no, un suo bene personale, per decidere se possono acquistarlo con il suo solo consenso (o se invece occorre loro ottenere anche il consenso di Caia). E questa esigenza di certezza il legislatore ritiene giusto di soddisfarla costruendo la presunzione (che peraltro é tutt’altro che infondata), che Caio abbia omesso di dichiarare, che il bene é stato da lui acquistato con il prezzo del trasferimento ecc.ecc., per la semplice ragione che voleva, al momento del suo acquisto (irrilevanti essendo suoi successivi revirements volitivi), che tale bene cadesse in comunione.

Disc. Un’ultima domanda: se Caio vende un suo bene personale A, però non impiega la somma così ricavata per l’acquisto di un altro bene B, ma, metti, la deposita in banca, questa somma cade in comunione?

Doc. No, essa resta sua personale; ciò si argomenta facilmente dal fatto, che, se, in un domani, Caio impiega tale somma nell’acquisto di un bene B, questo é considerato un suo bene personale. E, bada bene, poco importa che, tra il momento in cui Caio vende A e realizza quindi la somma e il momento in cui la impiega per l’acquisto di B, passino anche molti anni. La norma da noi ora commentata non pone limiti di tempo al nuovo acquisto, ma semplicemente recita “sono beni personali....i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento eccetera”. Certamente, più passa il tempo più potrà essere difficile per Caio la prova che il bene B é stato acquistato proprio con la somma realizzata con la vendita del bene A - ma questa é un’altra questione, che ci riserviamo di affrontare parlando dell’ultimo comma dell’articolo 179 in esame.

Con questa osservazione abbiamo esaurito l’esame dei casi in cui il Legislatore esclude un bene dalla comunione, per la considerazione che esso non rappresenta “nuova ricchezza acquisita con la (presumibile) collaborazione dell’altro coniuge”.

Dobbiamo ora passare all’esame dei casi in cui il Legislatore esclude un bene dalla comunione, nonostante sia lecita la presunzione che esso sia stato acquisito grazie alla collaborazione dell’altro coniuge.

Cominciamo dalla lettura della lettera c) dell’articolo 179.

Disc. Leggo: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: e) i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori”.

Doc. Questa eccezione alla regola, che gli acquisti rientrano nell’oggetto della comunione, é giustificata da un’esigenza di tutela della personalità dei coniugi: l’equilibrio psicologico di Caio ne soffrirebbe, se egli non potesse contare, che, di certi beni, che gli sono particolarmente cari (la “sua” collezione di francobolli, il “suo” computer, la “sua” auto”....), egli solo può disporre; e come lo può ora, lo potrà anche domani, qualora la comunione si sciogliesse (ecco, perché i “beni strettamente personali”, non sono - come vedremo é invece per altri beni, quelli cadenti nella c.d. “comunione de residuo” - esclusi, sì, dalla comunione legale, ma per poi, al suo cessare, cadere nella comunione ordinaria con l’altro coniuge: il Legislatore parte dalla considerazione, che, la tutela della personalità di un individuo, richiede che gli si dia la sicurezza, che di certi beni egli, ed egli solo, potrà disporre, per sempre, anche dopo lo scioglimento della comunione).

Disc. Ma in base a che criterio si individuano i “beni strettamente personali”

Doc. Questo é il punctum dolens: non é facile trovare tale criterio. Certo, non si potrebbero definire tali beni come quelli su cui il coniuge esercita un potere esclusivo di disposizione, per la semplice ragione che questo potere di fatto potrebbe essere il risultato di una prepotenza, che il Diritto non potrebbe convalidare: Rossi, padre-padrone, dice “L’auto comprata é mia e guai a chi la tocca”: gli altri familiari chinano la testa e marciano a piedi e Rossi viene ad avere l’uso esclusivo dell’auto. Sarebbe questa una buona ragione per riconoscergliene la proprietà e la proprietà esclusiva? Chiaro che no.

Non resta allora che adottare, non essendocene altri migliori, il seguente criterio: un bene va considerato “strettamente personale” di un coniuge quando concorrono i due seguenti fattori: a)l’uso di fatto in maniera esclusiva di quel bene da parte del coniuge; b) la conformità al costume sociale di questo uso esclusivo. Di conseguenza, per rifarci all’esempio prima introdotto, non potrà considerarsi l’auto bene strettamente personale del padre-padrone Rossi, perchè l’uso esclusivo che Rossi ne fa, costringendo tutti gli altri membri della famiglia ad andare a piedi, contrasta con il costume sociale (o, se più piace, con la morale familiare); mentre potrà considerarsi l’auto bene strettamente personale di Bianchi, perché egli, ne usa, sì, esclusivamente, ma in quanto la moglie ha un’altra auto con cui a suo piacimento può scarrozzarsi

Disc. Può essere considerato di uso “strettamente personale” anche un bene immobile?

Doc. Sì, e questa risposta positiva si argomenta facilmente dal secondo comma dello stesso articolo 179, che stiamo ora esaminando. Naturalmente non é facile che ciò avvenga; e tuttavia può avvenire, specie nelle famiglie molto danarose: Paperon dei Paperoni si riserva l’uso esclusivo di un appartamentino a Parigi e la di lui consorte si riserva l’esclusiva disponibilità di un appartamentino a Londra.

Disc. Rileva quale dei due coniugi ha acquistato il bene in “uso personale”? Per rifarci agli esempi prima fatti: l’auto del Bianchi, l’appartamentino di Paperon dei Paperoni si potranno considerare loro beni personali, anche se acquistati dalle loro consorti?

Doc. Io ritengo, che, la considerazione che i beni personali continuano a essere considerati tali anche dopo lo scioglimento della comunione (Bianchi, separatosi dalla moglie, scioltasi la comunione, può portarsi via l’auto), imponga di aggiungere, ai due elementi da me già indicati come necessari per poter affermare la “personalità” di un bene, anche quello dell’acquisto del bene da parte del coniuge che ne fa esclusivo uso.

Questo, che abbiamo ora esaminato, é l’unico caso di deroga, alla regola della caduta in comunione degli acquisti, motivata dalla tutela della personalità dei coniugi. Ben più numerosi sono i casi, di deroga a tale regola, motivati dalla tutela della iniziativa economica dei coniugi.

Per cercare di spiegare come in mente legislatoris si giustifichino tali secondi casi di deroga, cominciamo con l’osservare come, la caduta in comunione degli acquisti, rappresenti sempre, in sé e per sé, un grave vulnus al potere di iniziativa economica dei coniugi; dato che la gestione dei beni in comunione rende, come vedremo, necessario per un coniuge il consenso dell’altro, e, indubbiamente, la subordinazione al consenso altrui, é la perfetta antitesi della situazione, che occorre perchè la iniziativa di una persona si sviluppi e si senta incoraggiata. Quindi, il legislatore cerca, appena che ciò diventa compatibile con gli scopi al cui raggiungimento l’istituto della comunione é funzionale, di limitare il danno conseguente a questo vulnus (danno non solo per i coniugi, ma per la società tutta, che ha bisogno che l’iniziativa dei suoi membri si esplichi al massimo!); e lo fa creando degli “spazi”, delle “sfere” in cui l’iniziativa dei coniugi si può esplicare liberamente.

Disc. Vediamo dunque le disposizioni che aprono tali “spazi”.

Doc. La prima te la dà la lettera b) dell’articolo 177.

Disc. Lettera b) dell’articolo 177: “Costituiscono oggetto della comunione: b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione”.

Letta al contrario questa disposizione, se non sbaglio, significa: tu, coniuge, puoi, fino al momento dello scioglimento della comunione, percepire e gestire liberamente i frutti dei beni, che sono in tua proprietà (o in quanto erano già in tua proprietà al momento della costituzione della comunione o in quanto sono diventati di tua proprietà durante la comunione, ad esempio perché ereditati): solo al momento dello scioglimento della comunione dovrai versare in questa i frutti che, da te percepiti, non sono stati consumati”.

Doc. Bravissimo:dieci e lode.

Disc. Ma che senso ha versare dei beni nella comunione al momento in cui questa si scioglie?

Doc. Effettivamente non ha nessun senso: si tratta di una fictio legislativa, che in realtà ha lo scopo di far cadere tali beni nella comunione ordinaria, che si viene a costituire sui beni, prima rientranti nella comunione legale, al momento del suo scioglimento. Lo vedremo meglio quando studieremo gli artt. 191 e segg.

Quel che importa qui dire é, che i beni che restano, sì, nella disponibilità di un coniuge durante la comunione, ma che, per quanto ne residua al momento dello scioglimento di questa, in questa vanno versati, si dicono, con terminologia non saprei dire quanto felice e necessaria, costituire la “comunione de residuo” (mentre al contrario tutti gli altri acquisti cadono incomunione immediata”). Quanto ora detto, vale sia per i beni contemplati dalla lettera b), che é ora oggetto del nostro esame, sia dalla lettera c), che prenderemo ad esaminare tra poco.

Disc. Ma torniamo ad occuparci esclusivamente del disposto della lettera b): d’accordo, il Legislatore concede a Caio di poter disporre, senza il consenso di Caia, dei frutti dei suoi beni personali, per tutelare la sua libertà di iniziativa: ma perché il Legislatore non sente eguale bisogno di tutelare la iniziativa di Caio, rispetto al bene B, che, da lui acquistato, é caduto in comunione?

Doc. Perché, subordinare l’attività di gestione di Caio al consenso di Caia, non può portare, nel caso del bene comune B, gravi inconvenienti (dato che in tal caso anche Caia ha interesse che questa gestione ci sia e che sia una buona gestione: forse che, allo scioglimento della comunione, il bene B non le spetterà al 50 per cento?), mentre li potrebbe portare nel caso del bene personale A, dato che Caia, alla sua buona gestione, non é in fondo interessata (“Non si fanno le riparazioni al tetto di A, la casa minaccia di crollare? e a me, Caia, che importa? la casa A non é mica mia, é di Caio: pertanto i diecimila euro, che si sono ricavati come frutto della sua locazione, investiamoli nella riparazione di B, bene in comunione, e non di A”).

Disc. Ho capito, il Legislatore dà a Caio la possibilità di disporre liberamente dei frutti, ben s’intende sia dei frutti naturali che civili, che dà il suo bene personale A, perché egli li possa impiegare al meglio in atti conservativi di A.

Ma Caio potrebbe impiegare tali frutti, non solo per atti conservativi, ma anche migliorativi di A: metti, per sopraelevarlo di un piano, per ristrutturarlo, per dotarlo di un idromassaggio?

Doc. Se ti ricordi, a questa domanda abbiamo già risposto positivamente commentando la lettera a) (in quel che dispone nella sua ultima parte), per cui non mi resta che rinviarti a tale commento. Qui voglio però sottolineare che, con il disposto di tale lettera a), il Legislatore, non solo deroga alla regola, contenuta nella prima parte della stessa lettera a), che gli “acquisti” cadono in “comunione immediata”, ma anche deroga alla regola, contenuta nella lettera c), che stiamo ora esaminando, secondo cui il “residuo” della gestione dei frutti (residuo che, negli esempi da te fatti, sarebbe dato dalle addizioni e migliorie da Caio eseguite) cade in comunione (“comunione de residuo”).

Disc. Ma potrebbe Caio impiegare i frutti (i soldi ricavati dall’affitto del bene A o, ciò che é lo stesso, i soldi ricavati dalla vendita dei frutti naturali – le mele, le pere, l’uva...- che A ha prodotto), non per la conservazione o miglioramento di A, ma per altri scopi: metti per farsi un viaggio a Honolulu?

Doc. Certamente, così facendo, tradirebbe le ragioni per cui il Legislatore gli ha dato la piena disponibilità dei frutti, dato che tali “ragioni” vorrebbero, che egli o impiegasse tali frutti per la gestione dei beni, che sono in sua personale proprietà, o li versasse nella comunione. E’ problematico però (ed é un problema che si ripresenta anche a proposito dei beni “provento della attività separata” dei coniugi, beni di cui tra breve parleremo) se l’altro coniuge, Caia, abbia la possibilità di impedire gli abusi di Caio. Su tale possibilità – che é soprattutto possibilità di controllare la gestione di Caio – abbiamo già speso qualche riflessione parlando dell’obbligo di contribuzione (di cui all’art. 143), e, a quanto abbiamo detto in tale sede, rinviamo.

Disc. E se Caio utilizzasse tali frutti (metti, nel tempo da lui accumulati) per acquistare un bene B?

Doc. In tal caso un eventuale “tradimento” (delle “ragioni” legislative che sottendono alla lettera b) non avrebbe modo di realizzarsi: che questa fosse o non fosse l’intenzione di Caio, il bene B cadrebbe automaticamente in comunione.

Disc.. Il Legislatore esclude dalla “comunione de residuo” i frutti percipiendi; e ciò significa che i grappoli d’uva, le mele, le pesche che pendono ancora dagli alberi (o gli “affitti” che debbono ancor essere incassati...) al momento dello scioglimento della comunione (metti, in seguito a una separazione o a un “divorzio”), rimangono in proprietà del coniuge che, del bene che li ha prodotti, é proprietario, di Caio, nei nostri esempi: perché il legislatore dispone in tal senso? forse perché ritiene ingiusto che l’altro coniuge, Caia, si avvantaggi di frutti alla cui raccolta non collaborerà?

Doc. Non credo che sia per questo (dato che Caia, se anche non collaborerà nella raccolta delle mele, ha pur sempre collaborato nell’accudire al melo che le ha

prodotte); penso piuttosto che il legislatore, escluda la caduta in comunione dei frutti percipiendi, per evitare la complicazione del calcolare quanta parte fare cadere in comunione di questi frutti (ché, chiaramente, farli cadere totalmente in comunione non sarebbe giusto, dato che pur sempre é vero che la loro raccolta peserà per spese e per fatica solo su Caio).

Detto questo, passiamo all’esame del disposto della lettera c) sempre dell’articolo 177.

Disc. La lettera c) recita: ““Costituiscono oggetto della comunione: c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati”.

Quindi letta al contrario, questa disposizione é come se dicesse al protagonista dei nostri esempi, a Caio: “Tranquillo, Caio, i proventi del tuo lavoro - ch’esso consista nello dar di vanga o nel sudar sui libri o in qualsiasi altra attività – non li dovrai versare nella cassa che hai in comune con la tua coniuge Caia, ma ne potrai disporre liberamente: solo quel che ne residuerà al momento dello scioglimento della comunione, dovrai in questa versare”. Ho detto bene?

Doc. Hai detto benissimo. E tanto sei bravo, che quasi non val la pena di ricordarTi che, con tale disposizione, il Legislatore mira a tutelare l’iniziativa economica in uno “spazio”, in cui é bene questa si esplichi con la massima libertà: lo spazio che ciascun coniuge riserva al suo lavoro: Caio I, che fa il dentista, Caio II, che fa l’agente immobiliare, perderebbero ogni incentivo alla loro attività, se, per disporre dei soldi guadagnati con questa (comprando, metti, il primo, un trapano e, il secondo, quel tal immobile) dovessero ottenere il consenso del coniuge.

Disc. Ma vale anche per il disposto della lettera c), quel che abbiamo concluso in sede di interpretazione del disposto della lettera b)? voglio dire - come un bene B, acquistato da un coniuge con i frutti che danno i suoi beni personali, cade in comunione - anche un bene B, acquistato dal coniuge con i proventi della sua attività, cade in comunione?

Doc. Bisogna distinguere: vedere se il bene, metti quello appartamento (o quel titolo azionario...) costituisce un investimento definitivo (l’avvocato, messi l’uno sull’altro duecentomila euro, li investe in un appartamento) oppure rappresenta solo la tappa, diciamo così, di un’operazione economica che deve proseguire (l’agente immobiliare che compra l’appartamento per rivenderlo): nel primo caso, il bene cade in comunione, nel secondo, no; ed é evidente perché, “no”: perché, il “congelare”, diciamo così, quell’appartamento facendolo cadere nella comunione, stopperebbe l’operazione economica intrapresa (nell’esempio,dall’agente immobiliare).

Disc. E se Caio, i soldi guadagnati, non li utilizzasse per acquistare un bene, ma li depositasse in banca?

Doc. Anche qui occorrerebbe vedere, se i soldi sono solo parcheggiati temporaneamente nel conto in banca per riservarsene l’utilizzo futuro per la propria attività, oppure no: solo nel secondo caso cadrebbero in comunione.

Disc. Sarà ben difficile entrare nel cervello di Caio per vedere quali erano le sue intenzioni nel fare il deposito in banca.

Doc. Tanto difficile, che in pratica si può escludere che, i soldi depositati in banca da Caio, cadano in comunione.

Disc. Che dire, se Caio investisse i soldi (“provento della sua attività separata”) nell’acquisto dei beni necessari per formare, strutturare un’azienda, ad esempio, per comprare, i macchinari, il capannone, i materiali necessari per far funzionare una fabbrica di vestiti?

Doc. Questo sarebbe senz’altro uno dei casi in cui l’acquisto dei beni non può considerarsi la parte finale, bensì solo la tappa di un’operazione economica, che, nelle intenzioni del coniuge acquirente, deve proseguire e svilupparsi (é chiaro che Caio compra i macchinari ecc., non per lasciarli inutilizzati, ma per servirsene per l’esercizio di un’attività imprenditoriale): quindi, sarebbe da escludere che tali beni cadano in “comunione immediata”, e sarebbe da ritenere che Caio ne possa disporre liberamente (beninteso, con l’obbligo di versare nella comunione, quel che ne resta al momento dello scioglimento di questa: cioé tali beni andrebbero considerati, in comunione, sì, ma solo in “comunione de residuo).

Questa conclusione, a cui già si giunge in sede di interpretazione della lettera c) dell’articolo 177, trova conferma chiara ed esplicita nell’articolo 178, che ti prego di leggere.

Disc. Art. 178: “I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”.

Doc. Come vedi, il legislatore si riferisce a casi omologhi a quello da te ipotizzato: il caso di un coniuge che, per esercitare un’impresa (metti l’impresa di fabbricazione di vestiti) acquista “dopo il matrimonio” i beni a ciò necessari (“i beni destinati all’esercizio di tale impresa”, di cui parla la norma); il caso di un coniuge che, esercitando un’impresa, da lui già iniziata prima del matrimonio, dopo il matrimonio la “incrementa” (aumentando i beni destinati al suo esercizio, ad esempio comprando nuovi e più moderni macchinari, o semplicemente aumentandone, con la sua buona gestione, il c.d. “avviamento”); ebbene quale sorte riserva il Legislatore ai beni così acquistati? Quella di cadere, non in “comunione immediata”, ma solo in “comunione de residuo”. Recita infatti l’articolo: i beni destinati all’esercizio dell’impresa ecc.....e egli incrementi dell’impresa ecc....si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa”. Come vedi, la soluzione adottata dal Legislatore, si sovrappone alla conclusione a cui noi eravamo giunti, in sede di interpretazione della lettera c) dell’articolo 177. Ciò significa in pratica che Caio, il quale ha acquistato dei beni per intraprendere un’attività imprenditoriale, potrà disporne (vendendoli, dandoli in locazione ad altri ….) con assoluta sua discrezione, senza dover chiedere il consenso di Caia; solo al momento dello scioglimento della comunione, perderà tale piena disponibilità dei beni e dovrà, in questa, conferirli (melius, dovrà conferire, nella comunione, l’azienda che, come tu sai, costituisce un quid pluris rispetto alla somma dei beni che la costituiscono).

Disc. E se alcuni di tali beni fossero andati distrutti o fossero stati venduti?

Doc. Ovvio, in tal caso dovrà conferire i beni o il prezzo residuo.

Disc. Ma, se ho ben capito, ciò in pratica verrebbe a significare la divisone di tali beni, con Caia; il che vale a dire, la disintegrazione della azienda da lui, forse con passione e genialità, costruita: un disastro per il nostro Caio.

Doc. Eh, sì, la soluzione adottata dal Legislatore é severa per il coniuge-imprenditore; e val la pena di anticipare che non é altrettanto severa verso il coniuge-professionista: questi, come vedremo commentando la lettera c) dell’articolo 179, allo scioglimento della comunione, non perde la piena disponibilità dei beni (armadi, computers...) da lui acquistati per lo svolgimento della sua professione (in quanto di tali beni l’articolo 179 gli riconosce la “proprietà personale”).

Disc. Penso che il povero Caio dovrà versare in “comunione de residuo” (cioé, in pratica, dividere con Caia) anche i guadagni da lui conseguiti con l’esercizio dell’attività imprenditoriale.

Doc. Certamente; ma questo, non per l’articolo 178, ma per la lettera c) dell’articolo 177.

Disc. Tutto ciò sarebbe ancora accettabile, nel caso che, come nell’esempio da me inizialmente fatto, i “beni destinati all’impresa” fossero acquistati col “provento dell’attività separata” di Caio; ma in realtà l’articolo 178 fa di ogni erba un fascio e non distingue questo caso da quello, che meriterebbe una soluzione ben diversa, di Caio che acquista i beni con soldi di sua personale proprietà (metti, soldi che aveva in banca prima di sposarsi).

Doc. In effetti ciò é inammissibile, perché illogico: che logica c’é che Caio, se acquista, con i soldi che aveva prima del matrimonio, l’immobile A, ne divenga esclusivo proprietario (idest, l’immobile non cada in comunione) e, se acquista, sempre con soldi che aveva prima del matrimonio, macchinari per la sua azienda, questi cadano invece in comunione, sia pure de residuo?! Pertanto, io ritengo che sul punto l’articolo 178 vada assoggettato ad un’interpretazione restrittiva, nel senso di escludere la caduta in comunione dell’azienda o degli “incrementi” acquistati con soldi, che sicuramente il coniuge aveva prima del matrimonio (in tale conclusione confortato da un argomento tratto dall’ultimo comma dell’articolo 177, al cui prossimo commento debbo rinviare).

Disc. Che dire nel caso di Caio e Caia, che cogestiscono insieme un’impresa?

Doc. Questo lo vedremo commentando la lettera d) e l’ultimo comma dell’articolo 177.

Cominciamo con la lettura della lettera d).

Disc. Leggo la lettera d) dell’articolo 177: “Costituiscono oggetto della comunione: d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.”

Doc. Mettiamo che Caio e Caia “dopo il matrimonio” (melius, dopo la costituzione del regime di comunione legale), decidano di gestire insieme un’impresa edile; ebbene, se i beni utili all’esercizio di tale impresa sono stati acquistati (non importa se da Caio o da Caia o da Caio e Caia insieme) “dopo il matrimonio”, tali beni cadono in comunione. Si badi, non in “comunione de residuo”, com’é nella previsione dell’articolo 178 or ora commentato, ma in “comunione immediata”.

Del resto ciò é logico: il procrastinare, la caduta di certi beni in comunione, al momento dello scioglimento di questa, serve per permettere a un coniuge di disporre liberamente di tali beni senza dover sottomettersi al consenso dell’altro; quindi diventerebbe un vero non-senso nel caso di Caio e Caia, che, accettando di cogestire l’impresa, con ciò dimostrano di accettare di buon grado di sottomettere le loro iniziative al reciproco consenso.

Disc. E se Caio, solo soletto, dopo il matrimonio, inizia, acquistando i beni a ciò utili, un’attività imprenditoriale e, dopo qualche tempo, prende a cogestirla con Caia?

Doc. La soluzione non cambia: dal momento in cui Caio accetta la cogestione di Caia, i beni (che prima erano in “comunione de residuo) vengono a cadere in “comunione immediata”; ed anche qui la cosa é logica, perché dal momento in cui Caio accetta la cogestione, dimostra con ciò stesso di accettare di sottomettere al consenso di Caia le decisioni relative all’impresa e, in primis, quelle che attengono alla disposizione dei beni dell’azienda: quindi un non-senso e una vera contraddizione in termini sarebbe concedergli di prendere tali decisioni senza...sottometterle al consenso di Caia (ché questo sarebbe il significato, lo abbiamo visto, del far rientrare i beni de quibus nella “comunione de residuo” e non nella “comunione immediata”).

Disc. E nel caso che Caio e Caia, “dopo il matrimonio”, inizino a cogestire un’impresa, però, dopo un po’ di tempo, uno, metti Caia, smetta di interessarsi a tale impresa (perché Caia, metti, vuol fare solo la casalinga), i beni dell’azienda continuano sempre ad essere soggetti al regime della comunione legale, con la conseguenza che Caio, anche se solo soletto ora ha la responsabilità dell’impresa, deve, per disporre di tali beni, dipendere dal consenso di Caia?.

Doc. Sì, é un po’ assurdo, ma é così; a meno che di comune accordo Caio e Caia decidano il contrario. Ciò si argomenta dal capoverso dell’articolo 191, che recita:

“Nel caso di azienda di cui alla lettera d) dell’art. 177 lo scioglimento della comunione può essere deciso, per accordo dei coniugi, osservata la forma prevista dall’art. 162”.

Disc. Penso che, come i coniugi divengono (in pratica) comproprietari al 50 per cento dei beni dell’azienda, anche al 50 per cento si dividano gli utili che dà l’impresa.

Doc. Sul punto il legislatore non é chiaro, ma fa pensare che tale sia la soluzione da lui voluta, il fatto che (con una certa confusione) nel secondo comma venga a parlare (come vedremo) di “comunione degli utili”, come conseguenza della cogestione di una “azienda”; ora é vero che il secondo comma si riferisce, a una azienda costituita prima del matrimonio, ma chiaramente la soluzione adottata per la azienda costituita “prima”, non può non valere anche per la azienda costituita “dopo” il matrimonio.

Disc. Però la divisione degli utili al 50 per cento, giusta, se Caio e Caia contribuiscono al 50 per cento alla gestione, mi pare che diventi ben ingiusta nel caso in cui l’apporto a questa sia diseguale: se Caia é “produttiva” al 90 per cento e Caio solo al 10 per cento, perché mai questo deve prendersi....la metà della torta e non accontentarsi di solo un suo decimo?

Doc. De iure condendo potresti avere ragione; de iure condito....hoc iure utimur. Tieni però presente che, almeno a mio parere, nulla impedisce ai due coniugi di stipulare un contratto di società, che preveda una diversa e più equa divisione degli utili.

Disc. Ma, se gli utili cadono in comunione, ciò anche significa che, del provento del loro lavoro nell’impresa cogestita, i coniugi non potranno disporre autonomamente: ad esempio, Caio non potrà utilizzare, senza il consenso di Caia, tali utili per comprarsi un vestito o...le sigarette.

Doc. Io non sono sicuro che si sia forzati ad accettare tale...drammatica situazione. Prima di tutto, anche la disposizione del secondo comma può essere assoggettata ad un’interpretazione restrittiva, che porti a concedere a ciascun coniuge la piena disponibilità della parte di utili che gli spetta, né più né meno di come avrebbe la piena disponibilità del provento di una attività lavorativa, che svolgesse presso un terzo qualsiasi. In secondo luogo, concesso e non ammesso che gli utili cadano in comunione, a me sembra che non vi sia nessuna norma che neghi ai coniugi di dividere i soldi, in questa, caduti e, quindi, anche i soldi che rappresentano l’utile che dà l’impresa da loro gestita in comune.

Disc. Ma quando si può parlare di effettiva cogestione di un’azienda? Si può dire che Caia, la quale aiuta il marito nell’azienda facendo la dattilografa, cogestisce con lui l’impresa?

Doc. Certamente, no: vi é cogestione quando entrambi i coniugi si riconoscono reciprocamente il potere di prendere le decisioni relative alla gestione dell’impresa: le decisioni, se vendere a 100 o a 50, se assumere, o no, del personale, se licenziare, o no, Pinco Pallino e così via.

Disc. Passiamo ora all’esame del secondo comma, che recita: “Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli interessi”.

Doc. La fattispecie, che il Legislatore disciplina in questa norma, é quella di Caia, che cogestisce un’impresa col marito Caio, nel caso l’azienda, cioé il complesso dei beni necessari per l’esercizio di tale impresa, sia stato acquistato da Caio “anteriormente al matrimonio”.

In un tal caso, é escluso che i soldi necessari a tale acquisto siano stati guadagnati da Caio grazie alla collaborazione di Caia (appunto perché essi sono stati guadagnati “anteriormente al matrimonio”, forse addirittura in un tempo in cui Caio e Caia neanche si conoscevano!), pertanto non vi é ragione di fare cadere l’azienda (acquistata da Caio) in comunione; e in effetti il legislatore non ve la fa cadere. La soluzione adottata dal Legislatore, come si vede, é ovvia, ma importante, perché ci permette di argomentare un’interpretazione restrittiva della disposizione della lettera d) da noi prima esaminata.

Disc. In che senso?

Doc. Nel senso di escludere la caduta in comunione dell’azienda, ancorché sia stata acquistata “dopo il matrimonio”, quando il suo acquisto é stato sicuramente fatto con soldi, che Caio aveva già prima del matrimonio.

Lo stesso mutatis mutandis va ripetuto per gli “incrementi” dell’azienda intervenuti “dopo il matrimonio”: nonostante la lettera della norma (ci riferiamo con ciò alla norma del secondo comma), se Caio “dopo il matrimonio” acquista dei macchinari per l’azienda con soldi suoi personali (ma non costituenti “provento della sua attività separata”, perché in tal caso si dovrebbero invece applicare le conclusioni a cui siamo giunti in commento alla disposizione di cui alla lettera c), ebbene tali macchinari non cadono in comunione né immediata né de residuo.

 

Disc. Però gli utili dell’impresa cadono in comunione.

 

Doc. Sì, ma nel limitato senso che abbiamo visto commentando la lettera d).

A questo punto però dobbiamo tornare all’articolo 179 e precisamente alla sua lettera d).

Disc. Leggo la lettera d) dell’articolo 179, che recita: “Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge: d) i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione”.

Doc. L’eccezione, fatta dal disposto della lettera d), al principio, secondo cui gli “acquisti” cadono nella comunione, si giustifica evidentemente con la tutela dell’iniziativa economica dei coniugi: Caio, resterebbe senz’altro mortificato nella sua volontà di iniziativa, forse perderebbe addirittura il “gusto” della sua professione, se dovesse dipendere dal consenso dell’altro coniuge per disporre dei suoi “ferri del mestiere” (intesi questi in senso tanto lato da ricomprendervi, non solo i codici dell’avvocato, ma anche i mobili con cui é arredato il suo studio).

Disc. Questo é certo, ma a me sembra che sia importante per Caio, non solo avere la possibilità di disporre liberamente dei “ferri del mestiere” già in suo possesso, ma anche di avere la possibilità di liberamente comprarne dei nuovi (di comprare un nuovo codice, se é un avvocato, di comprare un nuovo trapano, se é un dentista...)..

Doc. E questa possibilità il nostro Legislatore in effetti gliela concede; non però con l’articolo 179 lett.d), ma con l’articolo 177 lett.c): la lettera c) dell’articolo 177 dà infatti al coniuge la possibilità di disporre liberamente del “provento della (propria) attività separata”, quindi anche di comprare “i beni che servono all’esercizio della sua professione” di cui parla la lettera d), che stiamo commentando. Il novum, che la lettera d) dell’articolo 179 aggiunge alla lettera c) dell’articolo 177, é che - mentre in genere i beni acquistati con il “provento dell’attività separata” del coniuge, cadono in “comunione immediata” (salvo alcune eccezioni che qui non rilevano) - nella specie che si tratti di “beni che servono all’esercizio della professione”, essi non cadono né in “comunione immediata” e neanche in “comunione de residuo”, ma nel patrimonio personale del coniuge: divengono piena ed esclusiva proprietà di Caio.

Disc. Ma Caio i suoi “ferri del mestiere” potrebbe esserseli comprati anche con i soldi suoi personali (i soldi che già aveva prima del matrimonio, i soldi che ha ereditato dopo il matrimonio...).

Doc. Questo é certo, ma pure é certo che, anche prescindendo dal disposto della lettera d), in tal caso tali beni sarebbero entrati nel patrimonio personale del coniuge: infatti, abbiamo visto, che, i beni acquistati da questo con i soldi del suo patrimonio personale, entrano nel suo patrimonio personale (e non cadono in comunione); quindi é giocoforza concludere, che, il disposto della lettera d), trova la sua ragion d’essere proprio in relazione ai beni acquistati con il “provento dell’attività separata” del coniuge.

Disc. Ma i beni de quibus non potrebbero essere stati acquistati dall’altro coniuge, da Caia?

Doc. Certo che sì; ma, a meno che rappresentino un donativo di Caia a Caio, in tal caso i beni non entrerebbero nel patrimonio personale di questi.

Disc. Quindi tu operi una interpretazione restrittiva della lettera della legge.

Doc. E’ necessario farlo, dato che non vi é nessuna ragione di far entrare nel patrimonio di Caio dei beni che, poco importa se del coniuge o di un terzo qualsiasi, comunque non gli appartengono; e questo per la sola ragione che ne usa per l’esercizio della sua professione.

Disc. Tu hai detto che i beni de quibus entrano direttamente nel patrimonio del coniuge che li usa; e hai giustificato ciò con la necessità di tutelare la sua libertà di iniziativa; ma, ai fini di tale tutela, non sarebbe bastato dare al coniuge la libertà di disporre di tali beni fino allo scioglimento della comunione; non sarebbe bastato, cioé, escludere, sì, tali beni, dalla “comunione immediata”, ma includerli nella “comunione de residuo? -

Doc. No, perché in tal caso il coniuge-professionista correrebbe il rischio di essere privato di tali beni al momento in cui, sciolta la comunione legale, si procedesse alla divisione dei beni che vi fossero caduti; e questo con suo grave, possibile danno: pensa al povero dentista, che si vedesse togliere dal vorace coniuge (da cui, metti, si é separato e con cui é in lite furibonda) il trapano o le sedie dello studio, insomma si vedesse disaggregare lo “studio” messo insieme con tanto sacrificio in tanti anni!

Disc. Tale rischio però lo corre il coniuge-imprenditore che ha costituito la sua azienda “dopo il matrimonio”: infatti questa, nel caso previsto dalla lettera d) dell’articolo 177 (impresa cogestita da Caio e da Caia), cade in “comunione immediata” e, nel caso previsto dall’articolo 178 (esercizio solitario dell’impresa), cade in “comunione de residuo - e l’ultima parte del disposto della lettera d)art.179, esclude appunto dai “beni personali”, e quindi espone a quel rischio della divisione di cui tu parli, “i beni destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione”.

Doc. E’ così: e questa soluzione - abbastanza ovvia nel primo caso (se Caio e Caia, cogestiscono l’azienda, dunque sono entrambi imprenditori, con che ragione dare a Caia anziché a Caio, o viceversa, i beni dell’azienda e quindi la possibilità di continuare l’esercizio dell’impresa?) - probabilmente si giustifica nel secondo caso (caso di Caio che da solo esercita l’impresa) con il molto maggior valore che possono avere (rispetto ai “ferri del mestiere” che usa chi non é imprenditore) i beni che costituiscono l’azienda; per cui può diventare ingiusto costringere il coniuge non-imprenditore a rinunciare alla metà di tali beni, solo per salvaguardare la libertà di iniziativa economica dell’altro.

Con ciò chiudiamo sul primo comma, e passiamo all’esame del secondo.

Disc. Il secondo comma recita. “L’acquisto di beni immobili o di beni mobili elencati nell’art. 2683, effettuato dopo il matrimonio, é escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge”.

Doc.Abbiamo visto che, non tutti i beni che un coniuge acquista, cadono nel suo patrimonio personale: alcuni, sì, altri invece cadono nella comunione. E sappiamo anche che non è per nulla irrilevante stabilire, se il bene acquistato da Caio é entrato nel suo patrimonio personale o nella comunione: infatti, a seconda del caso, muta il suo regime giuridico: ad esempio, nel primo caso, un terzo potrà acquistarlo in forza del solo consenso espressogli da Caio, mentre, nel secondo, gli occorrerà il consenso di Caio e di Caia. Naturale quindi che il Legislatore senta l’esigenza di rendere certa la posizione giuridica dei beni, dai coniugi, acquistati.

Disc. E infatti abbiamo visto, parlando della lettera f), che il legislatore ritiene, sì, “beni personali” quelli acquistati “col prezzo del trasferimento” di beni personali, ma “purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto”.

Doc. Sì, questo é vero, ma (a prescindere che la dichiarazione di cui parli é relativa solo a una delle categorie di beni elencate nell’articolo 179, mentre il problema di cui io parlo é relativo a tutte queste categorie), é anche vero che una dichiarazione unilaterale del coniuge acquirente, non può dirsi una sicura prova della reale posizione del bene.

Disc. E allora a che serve?

Doc. Serve a impedire futuri revirements suggeriti al coniuge dall’interesse di falsificare i fatti: io, Caio, al momento dell’acquisto, dico che il bene A é stato acquistato col prezzo ecc. quindi é bene mio personale; e anche se, dopo qualche anno, i miei creditori mi mettono in una situazione in cui mi converrebbe far risultare il bene A in comunione, ahimé! la dichiarazione fatta al momento dell’acquisto, mi impedisce di cambiare.. .le carte in tavola.

Il legislatore, quindi, ripeto, non si può accontentare della semplice dichiarazione dell’acquirente; e, per ritenere che un bene sia “personale”, vuole una (vera) prova di ciò. Ma il legislatore, nel mentre pretende tale prova, la facilita dove può – cioè nel caso di acquisti soggetti a trascrizione (perché relativi a beni immobili o ai beni mobili di cui all’art. 2683: automobili, aeromobili....).

Disc. E come la facilita?

Doc. - Imponendo un onere che, se assolto, sarà da lui considerato come prova della esclusione del bene (acquistato) dalla comunione.

Disc. Quale onere?

Doc. L’onere: primo, di far risultare “dall’atto” l’esclusione (melius, il fatto o il motivo dell’acquisto che giustifica l’esclusione) del bene dalla comunione; secondo, di far partecipare all’atto l’altro coniuge.

Disc.E se l’altro coniuge non vuole partecipare?

Doc. In tal caso al coniuge-acquirente non resterà che sobbarcarsi la prova del quid (l’essere stato il bene acquistato per l’esercizio della professione, con il prezzo ricavato dalla vendita di un bene personale....), che giustifica la estraneità del bene dalla comunione.

Disc. E se Caia si presenta, sì, davanti al notaio, ma per contestare il “motivo di acquisto” addotto da Caio (questi dice di aver acquistato l’auto perché gli serve nella professione, Caia dice, no, non é vero, l’ha comprata per andare dalla sua amante)?

Doc. Nessun dubbio che l’onere in tal caso sarebbe assolto, ma nessun dubbio che la norma va interpretata restrittivamente, in modo da escludere in tal caso l’efficacia liberatoria (dalla prova) dell’adempimento dell’onere. Infatti, nel pensiero del legislatore, la partecipazione dell’altro coniuge all’atto, prova l’estraneità del bene dalla comunione, in base al ragionamento “Se Caia, presente a quel che dice Caio, non lo contraddice, ciò significa che Caio dice il vero”; ma é chiaro che tale ragionamento più non regge, se Caia non tace, ma contesta.

Disc. Non capisco perché tale marchingegno (l’onere della partecipazione del coniuge che se assolto ecc) é adottato solo per gli acquisti che riguardano le categorie di beni sub c),d) ed f).

Doc. Perché esso non sarebbe adottabile nè per la categoria sub a) (dato che riguarda acquisti fatti in un tempo in cui Caio non era ancora sposato con Caia e quindi non poteva farla....intervenire all’atto di acquisto), nè per la categoria sub e) (che riguarda acquisti, meglio acquisizioni di beni, che di solito non si realizzano con la stipula di un contratto); e, per quel che riguarda la categoria sub b), perché esso (idest, tale marchingegno probatorio) sarebbe inutile (dato che già il silenzio del donante o del de cuius sulla destinazione del bene alla comunione é sufficiente prova dell’esclusione del bene da questa).

E con questa osservazione possiamo considerare esaurito l’argomento: oggetto della comunione legale; la prossima lezione riguarderà la amministrazione della comunione.

Disc. Prima di chiudere, però, concedimi un’ultima domanda: tu sei sempre partito dal presupposto che i beni acquistati da Caio e da Caia costituiscano “nuova ricchezza”, che si aggiungerebbe al patrimonio del coniuge acquirente.

Doc. E’ vero; e puoi aggiungere che ho pure detto che, siccome tale nuova ricchezza é anche dovuta alla collaborazione di Caia, questo rende giusto che essa ricada, non nel patrimonio personale di Caio, ma nella comunione.

Disc. Sì, però non é affatto vero che ogni acquisto ridonda in nuova ricchezza: potrebbe darsi anche il caso di un acquisto dannoso: metti che Caio abbia comprato una vecchia casa diroccata, che in ogni momento minaccia di crollare recando ingenti danni ai vicini: come si potrebbe dire che il suo acquisto porta “nuova ricchezza” alla comunione”? Apporterà danni e spese e non “nuova ricchezza”!

Doc. Capisco il problema che poni; ed é un problema non facile da risolvere. La soluzione migliore che io vedrei é quella di interpretare gli articoli sulla amministrazione della comunione in modo da riconoscere a Caia il potere di opporsi all’acquisto.