Enciclopedia giuridica del praticante

 

Lezioni su Diritto di Famiglia - II

Lezione VIII: Il regime della separazione dei beni.

Doc. Il legislatore non dà una definizione del regime della separazione dei beni, così come non la dà del regime del fondo patrimoniale e di quello della comunione legale, ma - siccome, nel primo articolo della sezione dedicata alle “disposizioni generali”, l’articolo 159, egli aveva enunciato la norma che “il regime patrimoniale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione.....é costituito dalla comunione dei beni (rectius, dei beni acquistati durante il matrimonio) - nel primo articolo dedicato al regime della separazione, l’articolo 215, sente il bisogno di ribadire che “I coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio”.

Disc. Quindi, il regime, che andiamo ora a studiare, si caratterizza per il fatto, che i coniugi restano “titolari esclusivi” dei loro beni, quelli che avevano al momento di sposarsi e quelli acquistati successivamente; é così?

Doc. E’ così; ma sarebbe bene sottolineare, che i coniugi restano titolari esclusivi di tutti i loro beni; dal momento che, pure chi opta per il regime di comunione legale o per la costituzione di un fondo patrimoniale, conserva la titolarità esclusiva di alcuni beni: ad esempio Caio, che, al momento in cui opta per il regime della comunione, é proprietario di tre appartamenti, conserva la titolarità esclusiva di tali appartamenti e, mutatis mutandis la cosa si potrebbe ripetere per il caso che avesse costituito un fondo patrimoniale (i beni non “versati” nel fondo resterebbero di sua esclusiva proprietà – vedi meglio l’articolo 168).

Ed é bene dire subito che le norme che andremo ad esaminare, anche se inserite in una “sezione” dedicata al regime della separazione, non si applicano solo ai beni di chi ha optato per questo regime, ma si applicano a tutti i beni di cui un coniuge, qualunque sia il regime per cui ha optato, conserva la titolarità esclusiva.

Chiarito questo, passiamo a parlare del secondo articolo della sezione dedicata alla separazione dei beni, e cioé dell’articolo 217. Nel primo comma di tale articolo, il legislatore, che non ha persa l’abitudine di dire...cose ovvie, proclama che “Ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei beni di cui é titolare esclusivo”.

Disc. Io non trovo tanto “ovvio” il dettato legislativo. Infatti, quando noi si parlava dell’obbligo di contribuzione (terzo comma dell’articolo 143), mi prudeva una domanda, che ora, proprio il primo comma da te dileggiato, mi dà l’occasione di farti: Caio, una volta che ha adempiuto correttamente il suo obbligo di contribuzione, dei soldi che gli restano nel portafoglio, può fare quel che gli pare e piace? Cerco di essere ancora più preciso: Caio, ha un reddito mensile di tremila euro, e ne dà come “contributo” mille: dei residui duemila euro, può disporre come gli aggrada?

Doc. Fino ad un certo punto. Certamente egli é libero di impiegare anche tutti i duemila euro nell’acquisizione di beni e/o servizi utili per la sua professione e attività economica e per lavori diretti a conservare e rendere più redditizi i beni in sua proprietà. Ma incontra invece precisi limiti per quel che riguarda le spese voluttuarie (pranzi, spettacoli...) e per quelli che il legislatore definisce (nella lettera c, comma 1 art. 179) “beni di uso strettamente personale” (vestiti, computer, auto.......)

Disc. Da che cosa sono dati questi limiti?

Doc. Dall’obbligo per il coniuge di non superare, nel suo tenore di vita, quello di tutti gli altri membri della famiglia: se questi si nutrono a pasta e fagioli, egli non può pasteggiare a ostriche e champagne; se questi, per andare al lavoro, arrancano in bicicletta, egli non può scarrozzarsi in una fuoriserie: anche se noi viviamo in una società capitalistica, dentro le quattro mura della famiglia, ci dobbiamo rassegnare a vivere, qualunque siano le nostre idee politiche, in una...società comunista.

Disc. Sempre mentre noi si parlava dell’obbligo di contribuzione, io avevo una altra domanda sulla punta della lingua, che ora ti voglio fare. Questa domanda nasceva da quella che mi pareva una vera ingiustizia: Caio, pensavo, sentendo quel che tu dicevi, nei mesi che sono per lui quelli delle vacche grasse, guadagna tremila, dà il suo bravo contributo di mille e...il resto se lo spende; poi, quando vengono le vacche magre, mostra a Caia il portafoglio vuoto e non le dà niente - e ha ben diritto di non darle niente perché non ha niente; però, ecco quel che pensavo, se nel periodo di alta congiuntura avesse risparmiato, qualche cosa anche nel periodo delle vacche magre potrebbe dare – e il tutto mi sembrava ingiusto. Per cui ti avrei voluto domandare e ora ti domando: Caia può controllare l’uso che, del suo reddito, fa l’altro coniuge e costringerlo alla virtù del risparmio?

Doc. Certamente essa non può legare le mani e la borsa di Caio, per quel che riguarda le spesse che egli intende fare per la sua attività professionale e lato sensu economica: questo divieto nasce da quella esigenza di tutela della personalità, di cui abbiamo già avuta occasione di parlare.

Invece, per quel che riguarda le spese per beni personali e per quelle voluttuarie, l’obbligo per Caio di risparmio, nasce dallo stesso obbligo che ha Caio di uniformare il suo tenore di vita a quello degli altri familiari. Facciamo un esempio: Caio ha il reddito mensile di tremila: mille li dà come contributo alle “spese di famiglia”, mille li spende per comprarsi gli “attrezzi del mestiere” o per le necessarie riparazioni alle sue case, cinquecento li spende per mantenere un tenore di vita conforme a quello dei familiari: i residui cinquecento, non potendoli usare per spese voluttuarie, per forza li deve risparmiare!

Disc. Ma Caia può controllare che veramente mille siano spesi così, cinquecento colà e così via?

Doc. Tu mi domandi se c’é un obbligo di “trasparenza” economica tra due coniugi? ebbene, io sarei propenso a rispondere di sì (anche se mi rendo che la materia é delicata): il nostro legislatore vuole che tra due coniugi vi sia una completa “comunione spirituale e materiale” di vita? se sì, com’é sì, tra due coniugi non debbono esserci segreti: l’uno deve poter conoscere la contabilità dell’altro.

Disc. Chiariti i limiti in cui ciascun coniuge ha il godimento e l’amministrazione dei suoi beni, passiamo all’esame dei restanti commi dell’articolo 217. Vengo a leggerli.

Secondo comma: “Se ad uno dei coniugi é stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli é tenuto verso l’altro coniuge secondo le regole del mandato”.

Terzo comma: “Se uno dei coniugi ha amministrato i beni dell’altro con procura senza l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli e i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono tenuti a consegnare i frutti esistenti e non rispondono per quelli consumati.”

Quarto comma: “Se uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i beni di questo o comunque compie atti relativi a detti beni risponde dei danni e della mancata percezione dei frutti”.

Mi sembra che il Legislatore, prendendo in esame le varie ipotesi in cui un coniuge può trovarsi nella detenzione dei beni dell’altro, ne salti una. E infatti si potrebbero fare (non tre ma) quattro ipotesi: prima, il coniuge é nella detenzione per “procura” (rectius, mandato) dell’altro e con obbligo di rendiconto; seconda, il coniuge é nella detenzione, sempre per mandato dell’altro, ma senza obbligo di rendiconto; terza, il coniuge é nella detenzione senza mandato, ma senza opposizione dell’altro; quarta, il coniuge é nella detenzione, non solo senza mandato, ma addirittura con l’opposizione dell’altro coniuge. Questo mentre invece il legislatore fa solo tre ipotesi: e più precisamente salta la terza da me prima fatta (che invece, mi pare, ha pieno diritto di cittadinanza).

Doc. Tu hai ragione, senza dubbio il legislatore compie un salto logico. Ma anche Tu salti una quinta ipotesi, quella che il coniuge sia nella detenzione dei beni dell’altro in base, sì, a un contratto, ma non a un contratto di mandato: pensa a un contratto di locazione, di usufrutto, di enfiteusi (…); e, non contento, salti anche una sesta ipotesi, quella che il coniuge sia nella detenzione dei beni, non per amministrarli, ma solo per goderli.

Disc. Giusto: ciò andava chiarito ed é stato chiarito. Ora però tu comincia a commentare la prima ipotesi, quella prevista dal comma due.

Doc. Così come i coniugi possono stipulare tra di loro un contratto di compravendita, di locazione, di trasporto ecc., così essi possono anche tra di loro stipulare un contratto di mandato. A ciò, lo abbiamo già visto, non osta il divieto, stabilito dall’art. 166bis di “ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote”: infatti tale divieto, interpretato con tale severità da escludere anche la possibilità di Caia di dare a Caio un mandato, finirebbe per iugulare la stessa possibilità di Caia di muoversi nel mondo degli affari: quel che importa, per non ricadere nel divieto dell’articolo 166bis, é che il mandato non sia irrevocabile (a meno che la clausola di irrevocabilità - utile per dar la sicurezza, alla controparte del contratto oggetto del mandato, che nel corso delle trattative non vengano meno i poteri del coniuge-mandatario - sia soggetta ad un termine molto breve).

Disc. Quale forma deve assumere il mandato? può darsi anche per scrittura privata, anche oralmente, può essere anche “tacito”?

Doc. Se il mandato é (ipotesi di scuola) a puramente e semplicemente amministrare, senza il potere di compiere negozi giuridici, può essere dato in qualsiasi forma. Ma se il mandato, com’é nella norma, conferisce anche il potere di compiere, tanti o pochi nulla importa, atti giuridici, é, quindi, “con rappresentanza”, logicamente dovrà comprendere una procura, per cui dovrà applicarsi l’articolo 1392, secondo cui “La procura non ha effetto se non é conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere”. Per cui Caia - se volesse conferire al coniuge, oltre al potere di puramente amministrare, anche quello di vendere un immobile o, per fare un altro esempio ancora, quello di darlo in locazione per una durata superiore ai nove anni - dovrebbe dare al relativo mandato la forma scritta (vedi anche l’articolo 1350). Invece, il potere di riscuotere i canoni locatizi, di percepire i frutti di un fondo e di venderli, di assumere prestatori d’opera, Caia lo potrebbe benissimo dare a Caio anche oralmente e addirittura tacitamente. Certo é ben difficile ipotizzare una mandato verbale o tacito per il caso previsto dal comma secondo (data l’ipotesi, che vi si fa, dell’inserimento nel contratto di una clausola che impone il rendiconto); ma, con riferimento al caso contemplato nel comma terzo, invece, un contratto verbale e tacito si può benissimo ipotizzare.

Disc. Ma il mandato, può avere carattere generale, può addirittura riguardare tutti i beni di Caia?

Doc. Che possa avere carattere generale risulta dalla lettera stessa della norma (che si riferisce all’amministrazione “di beni” al plurale e non al singolare). E, ammesso ciò, non mi pare che ci siano ragioni per escludere che possa riguardare tutti i ben dell’altro coniuge.

Disc. Chiarito questo, passiamo all’esame del terzo comma.

Doc. – Il terzo comma é relativo all’ipotesi di un coniuge che amministra con procura (rectius, con mandato), ma senza “obbligo di rendere conto dei frutti” (e più in genere, un’interpretazione estensiva rientrando nella logica, senza rendere conto della sua amministrazione). Nell’ipotesi, il legislatore esenta il coniuge amministratore, non solo dall’obbligo di rendiconto, ma tout court, da quello di far avere al suo mandante, l’altro coniuge, i frutti della sua amministrazione (di cui evidentemente é libero di disporre); e siccome, nel più sta il meno, é da ritenere che lo esenti anche dalla responsabilità per mancata percezione dei frutti dovuta a sua negligenza e in genere (anche qui imponendosi in via logica un’interpretazione estensiva) da ogni responsabilità per mala gestio. Da questa, che é una deroga alla disciplina codicistica del mandato (artt.1710 e ss), ci riserviamo in seguito di trarre interessanti deduzioni.

Disc. Ma perché l’esenzione operi, deve risultare expressis verbis?

Doc. No, e ciò risulta dalla stessa lettera della norma, che si limita a parlare di coniuge “senza l’obbligo di rendere conto”. Questa considerazione ci permette di escludere, sia l’obbligo di rimettere i frutti al coniuge proprietario sia la responsabilità per mala gestio, anche nella terza ipotesi che tu avevi fatto (e che il legislatore ha saltato): l’ipotesi di Caio, che é nella detenzione dei beni di Caia senza suo mandato, ma anche senza sua opposizione.

Disc. Ma Caio, che si trova nella detenzione, poco rileva se con mandato o meno, dei beni di Caia, in che senso, dei frutti percepiti, può disporre liberamente? nel senso che può consumarli a proprio esclusivo beneficio o nel senso che può, sì, disporne solo a beneficio della famiglia, ma a lui solo é rimessa la scelta dei bisogni familiari da soddisfare con tali frutti?

Doc. Io escluderei senz’altro la prima alternativa: Caio deve usare i frutti nell’interesse della famiglia. E sarei anche propenso a ritenere che Caio, non possa liberamente, cioé senza il consenso di Caia, determinare la priorità dei bisogni familiari da soddisfare (perché ciò contrasterebbe con l’obbligo imposto ai coniugi dall’articolo 144 di “concordare” “l’indirizzo della vita familiare”), ma che abbia solo la libertà nella scelta delle vie da seguire per monetizzare tali frutti (se si tratta di frutti naturali: venderli a 100 o a 110?). Logico corollario di ciò, sarebbe che Caio non potrebbe imputare alla sua quota contributiva (per sovvenire ai bisogni della famiglia) le somme ricavate dalla sua amministrazione. Esempio: se Caio per contributo dovesse mille e, la somma ricavata dall’amministrazione, ammontasse a settecento, Caio non potrebbe limitarsi a dare trecento.

Disc. Passiamo ora all’esame del quarto comma.

Doc. Esso fa due ipotesi: la prima é che il coniuge-detentore (contro la volontà del coniuge-proprietario) rechi danni ai beni detenuti; la seconda, é - o almeno sembra essere (qui il pensiero legislativo é veramente poco chiaro!) - quella che il coniuge detentore, con la sua stessa detenzione, impedisca all’altro di cogliere i frutti dei suoi beni, col risultato di cagionargli così un danno. Per tali ipotesi la norma prevede una responsabilità, evidentemente un obbligo risarcitorio, per il coniuge possessore e danneggiante.

Disc. A me pare ovvio che il coniuge, che rechi danni alle cose da lui detenute, sia obbligato a risarcirli.

Doc. Appunto per questo, per dare una ragione d’essere alla norma, si impongono due diverse interpretazioni. Prima: essa, non tanto stabilisce che il coniuge deve risarcire i danni, ma che deve risarcirli anche se manca la prova di un suo comportamento colposo o doloso. Seconda (interpretazione): il coniuge deve risarcire i danni in caso di sua colpa o dolo. A me sembra che la prima interpretazione porti a soluzioni troppo severe, e preferirei adottare la seconda; la quale effettivamente porta a far dire alla norma una ovvietà, ma un’ovvietà che non sarebbe più tale, se il legislatore partisse dal presupposto che il coniuge, amministratore in base a mandato e comunque col beneplacito dell’altro coniuge, non sia obbligato a risarcire i danni anche se da lui causati per colpa (eccezion fatta che si tratti di colpa grave) – insomma se il legislatore adottasse, per il coniuge amministratore, quella stessa soluzione accolta nell’articolo 1713, per il mandatario esentato dall’obbligo di rendiconto.

Conclusione: siccome ritengo che al Legislatore non si debbano attribuire assurdità – absurda sun vitanda, insegnava Farinaccio – ritengo anche che il terzo e quarto comma vadano interpretati nel senso, che, il terzo, escluda la responsabilità del coniuge per i danni arrecati per colpa (che non sia grave); e, il secondo, invece, riaffermi il principio che il coniuge, come come tutti gli altri mortali, debba risarcire i danni colposamente causati.

Disc. Possiamo lasciare a questo punto il commento dell’articolo 217 e passare a quello dell’articolo 218, che recita: “Il coniuge che gode i beni dell’altro coniuge é soggetto a tutte le obbligazioni dell’usufruttuario”.

L’espressione “coniuge che gode i beni”, fa pensare al coniuge che é nella detenzione di un bene, non produttivo (pensa a un appartamento), dell’altro o, anche, é nella detenzione di un bene produttivo dell’altro, ma senza cercare di cogliere le utilità che questo può dare (é nel campo, ma non per coltivarlo o coglierne i frutti): é così? l’articolo in esame si riferisce solo a questi casi o si riferisce anche o addirittura solo ai casi in cui il coniuge-detentore, non solo gode, ma anche sfrutta i beni che detiene?

Doc. Senz’altro l’articolo in esame si applica al coniuge, che detiene un bene per farlo fruttare: sarebbe assurdo che il legislatore avesse fatto riferimento alla normativa che disciplina i diritti/obblighi dell’usufruttuario – di chi cioé é nel possesso di una cosa per “trarre ogni utilità che questa può dare” (art.981) – per dirci i diritti/obblighi di chi semplicemente e puramente gode di un bene.

Pertanto, l’articolo 218 viene a integrare l’articolo 217, stabilendo che il coniuge-amministratore, con o senza mandato, con o contro il beneplacito dell’altro, ha gli stessi obblighi dell’usufruttuario (quindi deve rispettare la “destinazione economica del bene” ecc.).

Peraltro, io riterrei applicabile tale articolo anche al caso del coniuge, che puramente “gode” di un bene dell’altro (Caio che abita nell’appartamento di Caia). Ovviamente in tal caso le norme sull’usufrutto si applicheranno solo per la parte che si adatta a tale situazione.

Disc. Passiamo ora all’esame dell’articolo 219, che recita:

“Il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene.

I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi”

Doc. La disposizione, che il coniuge possa provare “con ogni mezzo”, quindi, non solo documentalmente, ma anche con testimonianze e presunzioni, la propria proprietà esclusiva su un bene (poco importa che questo bene si trovi nella casa familiare, anche se normalmente sarà così, o in altro luogo), trova la sua giustificazione nei particolari rapporti di reciproca fiducia, che normalmente si instaurano tra coniugi e che normalmente impediscono loro di procurarsi le prove da far valere contro l’altro.

Ma, il fatto che la prova della esclusiva proprietà possa essere data con ogni mezzo, non significa che il giudice possa riconoscere, l’esistenza del diritto reclamato, anche in base a una prova insufficiente, una prova cioè che non gli dà la sicurezza (sia pure quella sicurezza di cui ci si deve accontentare nelle aule di giustizia), che il diritto appartenga veramente a chi lo reclama. Pertanto, quando, la esclusività della proprietà o tout court chi sia proprietario, non liquet, il giudice applicherà il secondo comma e attribuirà il bene conteso al cinquanta per cento a tutti e due i coniugi.

Disc. E, con ciò, farà un’eccezione alla regola, che vuole che, al rivendicante soccombente, la proprietà sia negata.. .al cento per cento.

Tu hai detto che bastano le presunzioni per provare la proprietà esclusiva (o la comproprietà) di un bene; vuoi dare un esempio di tali presunzioni?

Doc. Pensa alla presunzione, che nasce dalla particolare relazione della cosa controversa con la professione di chi la rivendica: chi può dubitare che i libri di diritto appartengano al coniuge-avvocato e non alla coniuge-casalinga?

Disc. E la detenzione della res controversa, che abbia il rivendicante?

Doc. Io escluderei che da sé sola costituisca sufficiente prova, che la proprietà della res spetti al rivendicante; a meno, anche qui, che tale proprietà risulti dalla particolare relazione esistente tra il rivendicante e la res: chi può dubitare che quella macchina fotografica appartenga al coniuge dilettante-fotografo?

Disc. Ma questa facilitazione concessa ai coniugi, nella prova della proprietà (esclusiva o in comunione), vale anche contro i terzi?

Doc. La risposta é, no: Caia che si oppone (in forza dell’articolo 619 codice di procedura civile – la così detta opposizione di terzo) al pignoramento, che il negoziante Parodi ha fatto in odio al marito Caio, su una res esistente nella abitazione familiare – tanto per riferirci alla situazione che più frequentemente si verifica nelle nostre aule di giustizia – non é agevolata nella prova che la proprietà della res spetta a lei, e non al marito Caio (oppure, nella prova che la res, non é in proprietà esclusiva del marito, ma in comunione tra lei e il marito).

Quindi, attente gentili lettrici, a non sposarvi con un uomo scialacquatore: i beni, che aveste portato nella casa comune, si troverebbero esposti alle aggressioni dei suoi creditori!

Però val la pena di dire che, se Caia non é agevolata nella prova dalla sua qualità di moglie, non ne é neanche handicappata; questo, almeno dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarata la illegittimità dell’articolo 622 del Codice di procedura civile, che invece poneva forti limiti, alla opposizione della moglie convivente, contro i pignoramenti dei beni, fatti in odio del marito, “nella casa di lui”.

E con ciò abbiamo terminato l’esame di tutti gli articoli della sezione quinta dedicata al regime della separazione dei beni.

Disc. Ma ora, che abbiamo passato in esame tutti gli articoli della sezione, vuoi sciogliere la riserva prima fatta? avevi detto, commentando il terzo comma dell’art.217, che, dall’esenzione del coniuge-amministratore dall’obbligo di rimettere i frutti al coniuge-proprietario, si può ricavare un’interessante deduzione: quale?

Doc. Questa: che, per la disciplina dei rapporti tra coniugi, non può attingersi senza discernimento alla eventuale normativa, che disciplini similari rapporti tra estranei; dato che questa disciplina non tiene conto di un elemento fondamentale, che caratterizza invece il rapporto tra coniugi e cioé la affectio coniugalis. E’ questo elemento, che rende improprio e stonato, un obbligo del coniuge- amministratore al conferimento dei frutti percepiti o un suo obbligo al risarcimento, per i danni senza colpa causati nell’amministrazione.; é ancora questo elemento che, come abbiamo visto in una precedente lezione, rende improprio e stonato l’obbligo, del coniuge proprietario, di pagare all’altro coniuge, che ha sopraelevato la sua casa, il maggior valore da questa acquistato (anche se ciò, dall’articolo 936 sulle accessioni, sembrerebbe imposto!). Ed é infine questo elemento, che porta a dare soluzioni anomale a certe questioni, che nascono nei rapporti tra coniugi e terzi. E con ciò in particolare mi voglio riferire alla questione, che nasce quando uno dei coniugi stipula un contratto con un terzo: la signora Rossi va nel negozio del mobiliere Parodi e vi compra un mobile: dell’obbligo da lei contratto di pagare il prezzo risponde anche il signor Rossi?

Ecco il problema su cui riterrei opportuno spendere ancora qualche parola, se sei d’accordo.

Disc. Certo che lo sono, l’argomento é interessante.

Doc. Allora diciamo subito che, alla domanda propostaci, sia la Giurisprudenza che la Dottrina, di massima, danno una risposta affermativa – questo, beninteso, quando la signora Rossi abbia assunto con tutta evidenza l’obbligo per soddisfare esigenze familiari.

La Giurisprudenza prevalente giustifica tale risposta con una doverosa tutela dello affidamento: Parodi ha diritto di chiamare a rispondere del pagamento del prezzo anche il marito della signora Rossi, perché, la qualità di moglie della Rossi, non poteva non indurlo a credere, che questa agisse col consenso e, quindi, con la procura del marito.

La Dottrina prevalente si richiama invece agli articoli 186, 190, che disciplinano il regime della comunione dei beni. Articoli da cui, in sintesi, risulta che, se uno dei coniugi, la signora Rossi dell’esempio, fa un acquisto, più in genere, stipula un contratto (di vendita, di prestazione d’opera, d’appalto...) “nell’interesse della famiglia”, degli obblighi, da tale contratto nascenti, rispondono, in prima battuta (art. 186), i beni in comunione, e, in seconda battuta (cioé se i beni della comunione non sono a ciò sufficienti), i beni personali, dell’altro coniuge, del signor Rossi nell’esempio fatto, sia pure solo “nella misura di metà del credito” (il prezzo era di tre mila? il terzo creditore, il Parodi del nostro esempio, potrà soddisfarsi sui beni del signor Rossi solo per 1500).

Disc. A me veramente pare che le giustificazioni portate dalla Giurisprudenza e dalla Dottrina non giustifichino un bel niente.

Infatti, la tutela, dell’affidamento di Parodi nel fatto che la signora Parodi agisse anche in nome del marito, si giustificherebbe solo se questi con un suo comportamento (metti accompagnando e assistendo alle trattative della moglie col mobiliere) vi avesse dato causa: in tal caso, forse sì, si potrebbe parlare, se non di una solidarietà del marito nell’obbligazione assunta dalla moglie, di un suo obbligo risarcitorio.

Per quel che riguarda poi la “giustificazione” portata dalla Dottrina, mi basta notare che, se il signor Rossi ha rifiutato il regime della comunione dei beni e ha optato per quello della separazione dei beni, é stato appunto per sottrarsi alle norme che disciplinano il primo: e allora perché gliele vogliamo applicare contro?!

Doc. La critica, che tu muovi alla Giurisprudenza é certamente pertinente. Quella, invece, che muovi alla Dottrina mi pare che non colga nel segno.

Tanto per cominciare, non tiene presente che, le disposizioni di legge che ti ho richiamato, sono, sì, inserite nella sezione dedicata al regime della comunione legale, ma si applicano a favore dei terzi, a prescindere che essi credano o no, il coniuge (con cui hanno stipulato un contratto), in regime di comunione; di più, si applicano anche se il terzo, perfetto analfabeta nel mondo del diritto, nulla sa di regimi in comunione e di regimi in separazione dei beni. Questo non fa pensare che il legislatore ritenga meritevole di tutela l’interesse del terzo, del nostro bravo negoziante Parodi, non per il fatto che la signora Rossi é in regime di comunione col il signor Rossi, ma semplicemente perché ha un rapporto di coniugio col signor Rossi? Questo, non fa, cioé, pensare che gli articoli 186 e 190, ancorché inseriti nella sezione dedicata al regime della comunione, si applicano, a prescindere che la signora Rossi sia in tale regime o no? Io direi di si.

Disc. Va bene, questa tua osservazione può anche essere giusta, ma non basta a superare, la fondamentale obiezione all’applicabilità degli articoli 186 e 190, data dal fatto che il Rossi, il marito della coniuge che ha fatto l’acquisto, se ha detto “sì” al regime di separazione dei beni e ha detto “no” al regime di comunione, é perché ha voluto rifiutare di sottomettersi con ciò alle norme che disciplinano questo secondo regime.

Doc. No, ha voluto rifiutare di sottomettersi a quelle, delle norme sulla comunione, che dispongono la comproprietà, (melius, la caduta in comunione) degli acquisti, ma non ha voluto rifiutare gli articoli 186, 190 – e ciò per la semplice ragione che non li poteva rifiutare, in quanto, questo é il punto, tali articoli, anche se inseriti nella normativa che riguarda il regime della comunione dei beni, esprimono un principio generale, come tale applicabile, nei rapporti tra i coniugi e i terzi, qualsiasi il regime da loro adottato. Tanto é vero che, torno a fartelo notare, tali norme si applicano tanto se il terzo sia a conoscenza del regime, che regola i rapporti patrimoniali del coniuge (che con lui contratta), tanto che non lo sia.

Disc. Qui fermiamoci, perché uno di noi due ha la testa troppo dura per...dare ragione all’altro.