Enciclopedia giuridica del praticante

 

Diritto Penale

6. In difesa di Bouka dell'Avv. Ciabatton De Ciabattoni

Sabato 30 marzo la Guardia di Finanza mi telefona per avvisarmi che ha arrestato (chiaramente in flagranza di reato: art. 381 c.p.p.) due tunisini che stavano contrabbandando dei t.l.e. (tabacchi esteri lavorati: sigarette). Con ciò la Polizia non fa che adempiere al dovere impostole dall’art. 386 co.2. c.p.p.

L’indomani un’altra telefonata: questa volta è la cancelleria del GIP: mi dà l’avviso (prescritto dall’art. 390 co.2 c.p.p.) che il giudice delle indagini preliminari interrogherà i due tunisini nella casa circondariale di Genova—Marassi, martedì 2 alle ore 9,45. Che fretta, penso io: non potevano prendersela con più calma (e non ho tutti i torti: è la vigilia di Pasqua!); e faccio i calcoli: metti che la P.G. abbia operato l’arresto alle ore 15 (del 30 marzo), ebbene il P.M. avrebbe potuto aspettare fino alle ore 15 del I aprile per chiedere (vedi nota 1) al GIP la convalida (v. sub 2) e, a sua volta, il GIP avrebbe potuto limitarsi a fissare l’udienza di convalida per le ore 14,45 del 3 aprile (vedi sub 3) ed io avrei avuto un giorno in più di relax.

Pazienza: evidentemente il P.M. ha voluto togliersi ogni fastidio e godersi, libero da ogni impegno, le feste ed ha presentata la richiesta la mattina del 31 (costringendo, però, così il GIP a fissare l’udienza per il 2). Ed una ulteriore conferma del fatto che mi trovo di fronte ad un P.M. intenzionato a scaricarsi da ogni preoccupazione, in vista del pranzo pasquale, è che mi arriva nella mattina di Pasqua, per fax, anche il provvedimento di convalida della perquisizione e del sequestro (vedi nota 4).

Faccio buon viso a cattivo gioco e, sia pur brontolando un po’, mi reco il 2 aprile al carcere. L’udienza era stata fissata per le 9,45; ma (naturalmente) il giudice non è che avesse da fare solo la convalida dell’arresto dei due tunisini: c’era insomma da aspettare e l’attesa per me durò fino alle 12.

E’ a quest’ora che l’assistente del giudice mi avvisa: “Tocca a lei, avvocato”: io entro nella saletta (niente toga e niente formalismi e d’altra parte sono anni che conosco il giudice e ci diamo del tu) e si procede all’interrogatorio dei due indagati. Si capisce subito che non si tratta di contrabbandieri di professione: sono due operai che, recatisi a visitare dei loro parenti in Tunisia, hanno pensato bene di portare in Francia, passando per l’Italia, (oltre a prodotti vari della loro fertile terra natale: cereali, peperoncini, frutta — anche) delle sigarette (per la precisione circa 38 Kg. pari a circa 1500 pacchetti). E’ brava gente, ma le pene ahimè in materia di contrabbando sono severissime e, cosa particolarmente dolorosa per i due malcapitati, contemplano (come pena accessoria) la confisca dell’auto di cui ci si è serviti per il contrabbando. Il primo passo comunque è di farli tornare alle loro famiglie.

Ed è cosa, questa, che ottengo senza nessuna difficoltà: il giudice è persona equilibrata: certo una misura cautelare deve adottarla, ma adotta la più indolore: il divieto di accesso e di permanenza nella provincia di Genova (insomma applica il primo comma dell’art. 283 c.p.p.).

Dunque i due tunisini se ne escono dall’aula felici e contenti: il pomeriggio potranno uscire dal carcere e tornare in Francia. E io mi domando: si faranno più vivi? Si fanno vivi, dopo alcuni giorni, per telefono, esprimendomi il loro grande cruccio: l’auto e le cibarie varie che sono rimaste nelle mani della nostra Guardia di Finanza. Bisogna provvedere a farli tornare in possesso di quella e di queste. Sì, ma un problema per volta: cominciamo dalle cibarie: è il problema più facile da risolvere.

Carta e penna e faccio una istanza scritta al giudice (al giudice delle indagini preliminari e non al P.M.), perché autorizzi i due tunisini a venirsene a Genova per ritirare la merce (che, si badi, non è sotto sequestro, ma solo in “temporanea custodia” presso la Guardia di Finanza).

Il giudice, a cui presento di persona l’istanza, non ha nessuna difficoltà ad accoglierla; in calce all’istanza stessa scrive il suo provvedimento (vedilo cliccando (A71) ) e mi dice di portare l’istanza (e il pedissequo suo provvedimento) dal cancelliere perché ci metta un timbro e me lo ritorni. Ma il cancelliere, a sentire le istruzioni del giudice, inorridisce: il provvedimento deve restare nel fascicolo (ed ha ragione!), va piuttosto avvisata la polizia a che non arresti i due tunisini quando entreranno in Italia (e anche qui ha ragione: in queste cose ne sanno più i cancellieri che i giudici!): comunica, quindi, il provvedimento, via fax, alla Guardia di Finanza ed alla Questura ed a me (bontà sua!) ne dà una copia (non autentica!), perché la faccia avere ai miei assistiti.

Il primo problema (recupero delle cibarie) è così risolto. Va ora affrontato il secondo (recupero dell’auto). Questo è veramente più difficilottino: non so proprio che pesci prendere. Un modo per chiarirmi le idee, penso, è quello di vedere le carte che l’accusa ha in mano. La cosa è possibile e lecita: forse che l’art. 366 c.p.p. non dà al difensore la facoltà di esaminare con calma in cancelleria “i verbali degli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria ai quali ha diritto di assistere”?!

Mi reco quindi alla segreteria del P.M. e chiedo di vedere gli atti. “Le potrò far vedere solo i verbali di sequestro e di ispezione” — mi dice la segretaria perentoria (e, mi pare, quasi diffidente). Ma ha ragione: senza dubbio io ho diritto di vedere (per l’art. 356 c.p.p.) i verbali degli atti di perquisizione e di sequestro (atti ai quali avrei avuto diritto di assistere) ed infatti la graziosa (ma un po’ bisbetica!) segretaria non me li rifiuta, ma solo quelli: non ho, infatti, diritto (nonostante l’art. 128 c.p.p.) di vedere le ordinanze del GIP (di convalida dell’arresto e di applicazione di una misura cautelare), perché al loro deposito avevo in sede di udienza di convalida malauguratamente rinunciato e non ho diritto di vedere neanche le richieste del P.M., di cui all’art. 390 c.p.p. e gli “elementi su cui le stesse si fondano”, per la semplice ragione che il legislatore ne nega la visione al difensore (vedi sub 5).

Di conseguenza ora navigo nel buio più completo: non posso sapere se il sequestro, sia stato, dalla P.G. spedito nelle 48 ore volute dall’art. 355 c.p.p. al P.M.; tanto meno sono in grado di valutare se sussistono i presupposti per ritenere l’inefficacia dell’arresto: quando l’arrestato è stato messo a disposizione del P.M.? Quando il relativo verbale gli è stato trasmesso? Quando il P.M. ha chiesto al GIP la convalida (...)? Tutto ciò non mi risulta! Se volevo conoscere tali elementi dovevo dimostrarmi difensore più grintoso all’udienza di convalida e chiedere al GIP di indicarmeli: ora l’attimo fuggente era passato.

Comunque ne sapevo abbastanza per imbastire un’istanza di riesame del sequestro dell’auto; cosa che col mio solito ottimismo e la mia solita fiducia nella “immancabile vittoria” mi affrettai a fare per non essere strangolato dal breve termine previsto dal co.3 art. 335 c.p.p.

Cosa dicevo in tale istanza? Tante cose, tutte sensate e delle quali la più sensata (e della cui sensatezza sono ancora convinto!) era questa: il sequestro effettuato dalla Polizia (ai sensi dell’art. 354 c.p.p.) era stato convalidato (ai sensi dell’art. 355) dal P.M. come se fosse effettivamente finalizzato a salvaguardare l’integrità delle prove, cioè come se fosse stato un “sequestro giudiziario”, mentre invece tale non era (sarebbe stato tale se si fosse potuto pensare che l’esame dell’auto poteva in futuro risultare utile per provare la responsabilità degli imputati (vedi nota 6) — ma così non era). Il sequestro in oggetto (nonostante la etichetta di comodo appioppatagli di “sequestro giudiziario”) era in realtà un sequestro preventivo (in quanto era finalizzato a rendere possibile la eventuale confisca della res) (vedi sub 7) e, quindi (a pena di nullità), doveva essere convalidato, non dal P.M., ma dal GIP (v. co. l art. 321 c.p.p.): ciò non era stato fatto, il sequestro doveva pertanto ritenersi nullo.

Felice e orgoglioso del marchingegno architettato (per togliere il sequestro all’auto e restituirla ai miei bravi tunisini) mi reco con la mia bella istanza nella cancelleria del tribunale del riesame. Vengo accolto da una gentile signorina; che, così scopro, non si limita a ricevere gli atti che noi avvocati le portiamo, ma, non essendo evidentemente troppo pressata dal lavoro, anche se li legge. La cosa mi pare di buon auspicio (se è così diligente il cancelliere, figuriamoci i giudici!); sento di trovarmi in un “super-ufficio” e ciò mi spinge ad azzardare: “Potrei avere una ricevuta del deposito?” (vedi sub 8).

La signorina non si offende per la mia diffidenza, ma mi fa osservare che, se voglio la ricevuta, debbo presentare una istanza ad hoc e pagare i relativi diritti di cancelleria. La furbetta conosce i suoi polli (almeno quelli del pollaio genovese). Io comincio a tentennare: il possesso della ricevuta non mi sembra più una cautela tanto necessaria. Rinuncio poi ad ogni scrupolo (difensivo) quando la gentile signorina, tranquilla e sorniona, aggiunge: “Ma avvocato, non è mai successo che qui si sia perso qualche cosa”. L’idea di rendere ancora più magro l’onorario datomi dai due tunisini, con degli esborsi a favore dello Stato, non mi arride; do così volentieri fiducia alla gentile e graziosa cancelliera e me ne torno in ufficio. A che fare? Tante cose (noi avvocati siamo sempre indaffarati), ma nessuna che riguardi il processo Bouka: per questo, infatti non ho che da aspettare. Che cosa? Diamine, l’avviso di fissazione dell’udienza (vedi nota 9).

E questo, infatti, puntuale arriva, portatomi dall’ufficiale giudiziario: è venerdì 12 aprile: l’udienza è fissata per il 18 aprile alle ore 9.00 (vedi sub 10).

Se fossi più sicuro di me, potrei presentarmi all’udienza, senza passare prima nella cancelleria per consultare gli atti (gli atti che per l’art. 324 co.3 c.p.p.  il P.M. deve depositare nella cancelleria del tribunale). Però è un po’ che non frequento il tribunale del riesame e la sicurezza non abbonda in me. Mi reco così in cancelleria e ordino copia degli atti (“senza urgenza”: io ho la virtù del risparmio). Però un dubbio (e a dir il vero, più che un dubbio, una curiosità) mi punge: chi mi dice che il P.M. ha prodotti tutti gli atti necessari a me per controllare la correttezza del suo operato? E’ vero, la legge, il codice (nel suo art. 324 co.3) dispone che la “autorità procedente” “trasmette al tribunale gli atti su cui si fonda il provvedimento oggetto del riesame”, ma chi mi dice che così sia? Confesso, però, che a tale domanda non sono riuscito a trovare ancor oggi una soddisfacente risposta.

La cosa però non mi tormenta più di tanto: problemi assai più gravi mi assillano: dei due indagati, quello che risulta proprietario dell’auto sequestrata, il Bouka Slah, è persona “mentalmente disabile”; così l’ha definito l’altro indagato, che è lo zio, e tale risulta dalla sentenza di un tribunale francese.

Tale suo stato rende improbabile che fosse consapevole del contrabbando e coautore del relativo reato (e quindi, per quel che rileva ai fini del sequestro, rende illegittima una confisca e infondato un sequestro a tale confisca finalizzato) (vedi nota 11); però, ecco l’altra faccia del problema: se all’udienza dichiaro lo Slah “portatore di handicap a livello mentale”, poi potrò fargli firmare quella domanda di giudizio abbreviato (che ho in mente come prossima mossa nel processo)? Oppure il tribunale disporrà una perizia (per accertare il suo stato di salute mentale) e sospenderà il processo?

Il dubbio è atroce. Però ragiono: il tribunale del riesame di certo non può disporre la sospensione del processo: perché? Ma perché la revoca del sequestro è chiaramente un atto che giova all’imputato e dall’art. 70 co. 2 c.p.p. si ricava facilmente che, nonostante la incapacità dell’imputato, si possono compiere gli atti a suo favore. Poi, una volta operato il dissequestro, se vogliono sospendere il procedimento, lo sospendano pure: ciò non danneggia l’imputato!

Sciolto quest’ultimo dubbio, preparatomi il mio bel discorsetto, il 18 mi presento alla porta dell’aula di udienza. Vi sono in quel giorno solo due pratiche a ruolo: la mia e un’altra per il riesame di una misura restrittiva della libertà personale. Il tribunale dà la precedenza a questa (che è la più delicata).

Quando il collega esce, entro io. Il P.M. non c’è. Un giudice a latere (una simpatica signora) fa la sua bella relazione (a dir il vero confondendo parecchie cose); poi tocca a me. Siccome, dopo aver presentato il ricorso, avevo introdotto un “motivo nuovo” con una memoria, domando al presidente se debbo far verbalizzare ai sensi dell’art. 309 c.p.p. il nuovo motivo, o no. Il presidente mi tranquillizza: avendolo già esposto in una memoria, la verbalizzazione è inutile. Il tono del presidente è affabile e gentile e ciò mi incoraggia nella mia (dettagliata) esposizione dei motivi per cui non va convalidato il sequestro. Nonostante la mia logorrea, l’atmosfera continua ad essere cordiale: il relatore si permette garbate osservazioni: io do i miei chiarimenti. Finisco abbastanza speranzoso e soddisfatto. “Buon giorno giudici” — “Buon giorno avvocato”. E la decisione del tribunale? Ah, per quella bisognerà aspettare: non è che i giudici la prendono subito. Però la prendono; purtroppo non sempre favorevole, come nel caso, al combattivo avvocato che si è sgolato davanti a loro.

La ordinanza che rigetta la mia istanza lo studioso la può leggere cliccando (A72).

Il processo non è finito con la (sfavorevole) decisione del tribunale del riesame: un processo, caro giovane collega, è una guerra: battaglie si perdono, battaglie si vincono: quel che importa è vincere l’ultima battaglia, quella definitiva.

Senza perdermi d’animo, dunque, imposto la seguente strategia processuale: dei due imputati uno, lo zio, è chiaramente colpevole (era lui che guidava l’auto, era lui, soprattutto, che, per sua stessa ammissione, l’aveva caricata di tutto quel ben di Dio da contrabbandare), l’altro, il nipote, è invece, chiaramente (sta ritornando dopo la batosta il mio solito ottimismo) in stato di assolutoria (e, sì, il proprietario dell’auto, ma non ne era alla guida, era un semplice trasportato, e la sentenza del tribunale francese, che lo dichiara incapace di intendere e gli nomina un tutore, fa pensare ch’egli neanche potesse rendersi conto del reato che, col mezzo della sua auto, si stava commettendo): farò dunque per il primo (per lo zio) un bel patteggiamento, per il secondo, invece, chiederò l’abbreviato (e, ne sono sicurissimo, ne otterrò l’assoluzione).

Prima mossa: fare il patteggiamento. Concordo col P.M. la pena da applicare (il minimo: il P.M. è una “anima buona”), redigo l’istanza (per la pena concordata), il P.M. fa risultare il suo consenso in calce all’istanza, il suo segretario la trasmette al GIP, il GIP mi fa notificare avviso di fissazione dell’udienza.

Tutto sembrerebbe filare liscio e bene, ma, nell’attesa del giorno dell’udienza, mi accorgo con costernazione di una “complicazione” a cui non avevo prima prestata la dovuta attenzione: anche se l’auto risulta di proprietà di uno solo degli imputati, lo Slah, il suo sequestro è avvenuto in odio ad entrambi: che succederebbe mai se il GIP decidesse, al momento di accogliere il patteggiamento, di disporre la confisca (quella confisca che l’art. 301 Legge Doganale impone nonostante il patteggiamento)? (art. 324 co.3 c.p.p.) (vedi nota l2). In tale (deprecata) ipotesi, il nipote, lo Slah, anche qualora riuscisse, come spero, a ottenere una sentenza che lo prosciolga e ordini a suo favore la restituzione dell’auto, non incontrerebbe terribili complicazioni a riottenere l’integrale proprietà di un’auto (che per metà risulterebbe espropriata a favore dello Stato?

Bisogna impedire che questo avvenga, che il GIP (del patteggiamento) disponga la confisca: bisogna far valere il buon diritto del nipote ad ottenere la restituzione, non di metà, ma di tutta l’auto. Sì, però il nipote ha os ad loquendum nel processo contro lo zio? Perché no? Forse che il terzo proprietario di una res sequestrata non può chiederne il dissequestro (e quindi a maggior ragione opporsi alla sua confisca)?

Risultato di queste mie elucubrazioni è la memoria che lo studioso troverà cliccando (A73): all’udienza il giudice troverà la saggia e giusta soluzione, che risulta dalla sentenza che lo studioso potrà leggere cliccando (A74).

Sistemato, al meglio ottenibile, lo zio, Bouka Ha, dovevo pensare a toglier dai guai il nipote, Bouka Slah.

Come avevo programmato redassi per lui un’istanza di giudizio abbreviato: quella che lo studioso può leggersi cliccando (A75). La firmai personalmente perché avevo avuta l’avvertenza di farmi rilasciare dal Bouka Slah una procura speciale (sia a patteggiare che a richiedere il giudizio abbreviato). Mi assalì però un dubbio: dovevo, o no, allegare all’istanza tale mandato? Certo la procura doveva essere “unita agli atti”, lo dice espressamente l’art. 122 c.p.p.; ma ciò doveva avvenire al momento in cui si iniziava la procedura (a cui la procura legittimava) o al momento della sua definizione?

Mi parve ragionevole risolvere il problema allegando una fotocopia della procura e riservandomi di depositare l’originale all’udienza (e, per la storia, tutto andò bene, il giudice non sollevò nessuna obiezione).

Con ciò ero pronto per presentare l’istanza, ma con ciò non la presentai subito, perché? Perché mi parve opportuno parlare prima col P.M. per sollecitarlo ad una rapida conduzione delle indagini (vedi sub 13): il P.M. me lo promise. “Stia tranquillo, avvocato, quanto prima chiederò il giudizio immediato” (perché il giudizio immediato? Chiaramente perché a lui la prova della colpevolezza “appariva evidente”) (vedi sub 14) — la cosa non mi parve di buon augurio, dato che a me appariva invece evidente la prova dell’innocenza e quindi se mai più congrua, da parte del P.M., che volesse comunque sostenere l’accusa, “la richiesta di rinvio a giudizio” di cui all’art. 416 c.p.p., ma lasciai perdere: non era il tempo e il luogo per discutere il merito della causa.

Il P.M. chiese il decreto del GIP in tempi decentemente brevi (anche perché jugulato dal prossimo esaurirsi di quei 90 giorni concessigli dall’art. 454 per trasmettere la sua richiesta al GIP); il GIP nei prescritti (dall’art. 455 c.p.p.) cinque giorni emise il decreto che disponeva il giudizio; e io (nei termini impostimi dall’art. 458) depositai (dove? naturalmente nella cancelleria del GIP) la mia richiesta di abbreviato (che lo studioso può leggersi cliccando (A75).

Non molti giorni dopo, mi fu notificata un’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato. Tutto o.k.? Ahimè, no (proprio vero che quando un processo nasce sotto una cattiva stella...): infatti io avevo subordinato la mia richiesta “ad una integrazione probatoria” (art. 438 co.5) e precisamente all’acquisizione di alcuni documenti scritti in francese: il GIP riteneva, sì, di tali documenti, “necessaria ai fini del giudizio” l’acquisizione, ma dichiarava che era “onere del difensore che li ha prodotti (id est, ha prodotti tali documenti) procedere alla loro traduzione giurata” (A76).

Insomma, le regole del gioco venivano stravolte: io mi ero dichiarato disposto al giudizio abbreviato, contando di essere gravato dell’unico onere di produrre i documenti e, invece, il GIP disponeva il giudizio abbreviato gravandomi sia dell’onere di produrre i documenti, sia di quello di tradurli. Non mi sembrava giusto: stando così le cose, non mi ritenevo vincolato dalla mia richiesta di abbreviato e con istanza ad hoc (clicca A77) chiesi che venisse revocato il provvedimento che revocava (scusi il lettore il bisticcio di parole) il giudizio immediato e che mi si permettesse così di adire il tribunale (e il giudizio ordinario).

Presentai l’istanza in cancelleria in settembre, quando il GIP che aveva emessa l’ordinanza (da me criticata) era ancora in ferie. Pertanto fu chiamato a decidere su tale istanza un suo collega (melius, una sua collega: era una signora molto gentile e graziosa, ma chiaramente non una “decisionista”). Gli parlai ed egli (melius, ella) mi disse che avrebbe chiesto lumi al dirigente l’uff1cio (e io immaginai subito il tenore del discorso: “Come fare? l’avvocato non ha tutti i torti: però, come si fa a dichiarare abnorme l’ordinanza della collega, come le si può fare tale sgarbo?”).

Fatto sta che fu emessa un’altra ordinanza (clicca A78), che chiaramente voleva dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, senza scontentare nessuno: non revocava la precedente ordinanza del GIP, ma lasciava aperta e quasi suggeriva la possibilità che la traduzione dei documenti avvenisse a cura dell’uff1cio.

A questo punto, lo studioso, giustamente impaziente, dirà: sì, tutto bene, ma come andò a finire questa lunga faccenda? Finì con una strepitosa vittoria della difesa (lo stesso P.M. si complimentò con me!): finì con la sentenza assolutoria di cui lo studioso (diventato diffidente sulle mie capacità professionali, dopo avermi visto compiere tanti errori) vedrà la prova cliccando (A79).

 

Note a Sesta esperienza: In difesa di Bouka

1) Secondo l’interpretazione che mi sembra migliore, il P.M., entro le 48 ore, deve, non solo fare la richiesta, ma deve farla anche pervenire alla cancelleria del GIP (anche mediante fax, naturalmente).

2) Co.1 art. 390. Si badi, il termine per il P.M. decorre dal momento dell’arresto o del fermo (mentre, invece, come vedremo, il termine posto al GIP per emettere la ordinanza di convalida decorre dal momento in cui “l’arrestato o il fermato è stato posto a disposizione del giudice — cioè a disposizione del GIP stesso).

3) Perché le 14,45 e non le 15? Perché è discutibile se entro le 48 ore, che il GIP ha a disposizione (v. co.7 u.p. art. 391 e co.2 art. 390 c.p.p.) per evitare la caducazione dell’arresto, egli debba semplicemente iniziare l’udienza o anche emettere il provvedimento di convalida. Quindi cautela vuole che il GIP si ponga in grado di emettere la sua ordinanza nelle 48 ore. Sì, ma da quando decorrono queste 48 ore?
L’ipotesi normale (e su cui noi abbiamo costruito i nostri calcoli nel testo) è che decorrano dal momento in cui il P.M. fa pervenire la sua richiesta alla cancelleria del GIP. Però non è detto che sempre sia così; in quanto il già citato co.7 art. 391 in realtà fa decorrere le 48 ore (non dal momento dell’arrivo della richiesta del P.M., ma) dal momento “in cui l’arrestato o il fermato è stato posto a disposizione del giudice”. Ora quando si realizza questo momento? Quando l’arrestato o il fermato è portato in uno dei luoghi di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 386 e al Gip ciò è comunicato. E ciò potrebbe avvenire in un momento posteriore a quello in cui la richiesta del P.M. è giunta al GIP.

4) E in effetti la Guardia di Finanza, contestualmente all’arresto, aveva (redigendo due separati verbali) operato il sequestro (ai sensi dell’art. 354) sia dei tabacchi esteri sia dell’auto in cui erano trasportati. Il sequestro era stato effettuato ai fini probatori (e non poteva essere diversamente, dato che il legislatore stabilendo che i poteri concessi dal co.2 art. 354 vanno esercitati dalla P.G. solo “se vi è pericolo che le cose, le tracce e i luoghi indicati nel comma 1 si alterino ecc. ecc.”, dimostra chiaramente di volerla autorizzare solo a un sequestro ai fini probatori). E il P.M. (a cui il verbale di sequestro era stato trasmesso ai sensi del co.1 art. 355) convalidando il sequestro (con riferimento ai motivi adotti dalla P.G. per effettuarlo) era come se avesse compiuto il sequestro giudiziario di cui all’art. 253.
Il confronto tra gli art. 253 e art. 257, da una parte, e l’art. 355 c.p.p., dall’altra, convincerà di ciò lo studioso: non vede che a decidere sull’opportunità e sulla validità del sequestro è competente nei due casi lo stesso organo? Non vede che, contro eventuali abusi di questo, la legge prevede la stessa difesa, cioè il ricorso al tribunale del riesame?
Stabilire questo era importante, perché il nostro codice, oltre a un sequestro giudiziario, contempla anche un sequestro conservativo (artt. 316 ss. c.p.p.) e un sequestro preventivo (art. 321) — sequestri (questi ultimi due) che sfuggono alla competenza del P.M.
Abbiamo ritenuto di evidenziare ciò, perché, come lo studioso vedrà, ciò che soprattutto premeva agli imputati era di ottenere il dissequestro dell’auto e pertanto tutta la causa fu “giocata” sul punto, legittimità, o meno, del sequestro.
Cliccando B71 lo studioso potrà leggere il verbale di sequestro dell’auto.

5) Mentre invece per le ordinanze dispositive di una misura cautelare (non emesse nel contesto di una procedura di convalida di arresto) con le relative richieste del P.M., il legislatore dispone il deposito (v. co.3 art. 293): è difficile comprendere il perché di tale differente disciplina.

6) Ad esempio, perché tale responsabilità era fondata sul fatto che nella carrozzeria dell’auto erano state effettuate delle modifiche (utili per nascondere le cose contrabbandate); modifiche che gli imputati, se lasciati tornare nel possesso dell’auto, avrebbero potuto eliminare (con ciò stesso eliminando la prova della loro responsabilità).

7) V. co.2 art. 321.

8) E infatti a tale ricevuta mi avrebbe dato diritto il disposto del co.3bis art. 116.

9) Che lo studioso potrà vedere cliccando B72.

10 ) Ed il tribunale, puntuale nell’osservanza del co.5 art. 324, doveva essere se voleva  impedire la caducazione della misura cautelare (v. comb. disp. co.7 art. 324 e co. 10 art. 309).

11) Ed, infatti, la legge doganale ( D.P.R. 23.01.1973 n.439 nel suo art. 301) dispone, sì, la confisca dell’auto (adibita al contrabbando) anche se appartenente a persona estranea al reato, però tale confisca esclude (ecco il punto!) quando tale persona “dimostri di non averne potuto prevedere l’illecito impiego anche occasionale e di non essere incorsa in un difetto di Vigilanza”. E’ importante rilevare, per la migliore comprensione di quel che in seguito diremo, che la legge doganale espressamente prevede la confisca anche in sede di pena patteggiata (derogando al disposto dell’art. 445 co.1).

12) Per maggiore chiarezza riportiamo di seguito l’art. 301 ora citato: “Nei casi di contrabbando è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l’oggetto ovvero il prodotto o il profitto. Sono in ogni caso soggetti a confisca i mezzi di trasporto a chiunque appartenenti che risultino adattati allo stivaggio fraudolento di merci ovvero contengano accorgimenti idonei a maggiorarne la capacità di carico e l’autonomia in difformità delle caratteristiche costruttive omologate o che siano impiegati in violazione alle norme concernenti la circolazione o la navigazione e la sicurezza in mare. Si applicano le disposizioni dell’art. 240 del codice penale se si tratta di mezzo di trasporto appartenente a persona estranea al reato qualora questa dimostri di non averne potuto prevedere l’illecito impiego anche occasionale e di non essere incorsa in un difetto di vigilanza (...). Le disposizioni del presente articolo si osservano anche nel caso di applicazione della pena su richiesta a norma del titolo Il del libro VI del codice di procedura penale”. Vedi, sul punto, la precedente nota 11.

13) C’è da dire che illo tempore il Legislatore apriva alla difesa la porta del giudizio abbreviato solo quando il P.M., esaurite le sue indagini, ne dava il consenso. Questo per il timore che la difesa, sfruttando il fatto che il P.M. non aveva ancora raccolte tutte le prove a carico, ottenesse una facile e immeritata assoluzione. Ora a tale pericolo il legislatore ha ovviato concedendo al GIP ampli poteri di integrare le indagini (incomplete) del P.M. (v. art. 441 co.5): quindi non ritiene più necessario il consenso del P.M.

14) V. art. 453 co.1. c.p.p.