Enciclopedia giuridica del praticante

 

Diritto Penale

4. In difesa di Sai (al dibattimento) dell'Avv. Ciabatton De Ciabattoni.

Riprendiamo il discorso (iniziato nella precedente esperienza n. 3) sul nostro Sai: egli, dunque, ha perso il treno: ricevuto il decreto di giudizio immediato non è riuscito a presentare l’istanza di giudizio abbreviato nei termini: deve quindi rassegnarsi ad essere giudicato col rito ordinario, a meno di scoprire una nullità nel decreto di citazione stesso. Ed, infatti, se viene dichiarata la nullità del decreto, il GIP dovrà emetterne un altro (v. note sub. 1) e il Sai, rispetto a tale nuovo decreto, riuscirà certamente, fatto frutto dell’amara esperienza passata, a proporre nei termini di legge la richiesta di abbreviato.

Pertanto, io, difensore, mi metto di buona lena a cercare la (sperata) nullità del decreto; ma questo, purtroppo, mi sembra sostanzialmente valido: il giudice (esperto) non si è limitato ad individuare l’imputato con le generalità (se lo avesse fatto, allora, sì, che sarebbe caduto in un “fatale” errore: l’imputato infatti è un “alias”, una persona cioè, di cui non si conoscono le esatte generalità) (v. sub 2), ma lo ha individuato, mediante il “cartellino dattiloscopico”(v. sub 3); l’oggetto dell’imputazione è sostanzialmente bene individuato, insomma tutte le prescrizioni del combinato disposto degli articoli 456 co.1 e 429 c.p.p. sembrano rispettate. Sto già cadendo nello sconforto quando un’idea luminosa mi attraversa la mente: ma il Sai, in sede di convalida (art. 391 c.p.p.), non aveva eletto domicilio presso di me? certo che si! Ed allora perché hanno notificato in carcere e non presso il mio studio? Un momento di riflessione ed arriva la risposta (però non soddisfacente): hanno così notificato in carcere in ossequio al combinato-disposto degli articoli 156 e 164 c.p.p. (v. sub 4).

Un ossequio, però, fatto a sproposito: il suddetto combinato-disposto si applica nel caso di elezione di domicilio fatta prima della restrizione in carcere (Sai il 1 gennaio 2001 elegge domicilio, il 15.01.2001 viene arrestato: allora, sì, che la elezione di domicilio si caduca e le notifiche vanno fatte nel luogo di detenzione) (v. nota 5), ma non si applica, invece, nel caso in cui l’elezione di domicilio sia fatta durante lo stato di detenzione (Sai, arrestato il 15.01.01, lo stesso 15.01.01 o nei giorni successivi fa l’elezione) (v. sub 6).

Chiara dunque la nullità della notifica! (v. sub 7). E da ciò, deduco esultante, consegue necessariamente la nullità del decreto di citazione (v. nota 8).

Si tratta ora di far valere tale nullità senza incorrere in nessuna decadenza. Mi leggo gli articoli 178, 179, 180, 181 c.p.p.: risultato, navigo in piena confusione di idee: si può dire che la nullità che intendo far valere è “concernente il decreto che dispone il giudizio” (art. 181 co.3) ? Direi di no, direi che con tale anodina espressione il Legislatore si è voluto riferire alla mancanza di uno dei requisiti (indicazione, delle generalità dell’imputato, del fatto...) pretesi, per il decreto, dal comb. disp. degli artt. 456 co.1 e art. 429 co.2  c.p.p. Neanche mi sembra si possa dire che la nullità “derivi dall’omessa citazione dell’imputato” (co.1 art. 179); ed, in effetti, non si può negare che l’imputato sia stato citato (sia pure non nel domicilio eletto). Dove, in realtà, l’imputato è stato leso è nel suo interesse a richiedere il giudizio abbreviato: insomma l’imputato è stato privato di un potere di impulso processuale. Ergo, si potrebbe ricadere nella previsione dell’art. 178 lett. C, cioè si dovrebbe ritenere che la nullità derivi dalla mancata “osservanza di una disposizione concernente” “l’intervento dell’imputato”.

Sì, ma in materia così opinabile, sarà identica alla mia, la diagnosi del giudice? Non corriamo rischi, mi dico, mettiamoci nella ipotesi più sfavorevole: cioè nell’ipotesi di nullità prevista dall’art. 181 co.3.

Di conseguenza, mi regolo come se dovessi sollevare l’eccezione di nullità “entro il termine previsto dall’art. 491 comma 1”. Però, prudentemente, non aspetto l’udienza per sollevare l’eccezione. E questo per due motivi: primo, perché il giudice, all’udienza, non ha tempo di approfondire le questioni e, se si trova di fronte ad un’eccezione difficile, che cioè involge complicati problemi giuridici é portato a rigettarla; secondo (motivo), perché “il termine previsto dall’art. 491” è un termine “sfuggente”: nel senso che il difensore, nella confusione dell’udienza, può trovarsi ad averlo sorpassato senza neanche accorgersene: l’ufficiale giudiziario chiama le parti e i testimoni (mentre gli avvocati parlano tra di loro o tra di loro e il P.M. o tra di loro e il presidente, insomma mentre vi è completa confusione) e poi il presidente (senza di solito dichiarare aperto il dibattimento, senza che l’ausiliario dia lettura dell’imputazione — come invece pretenderebbe l’art. 492: se lo legga lo studioso) invita il P.M. e le parti a fare le loro richieste; ed a questo punto già si è decaduti dal termine. Ecco perché non aspetto l’udienza per sollevare l’eccezione di nullità, ecco perché prendo carta e penna e redigo una sintetica memorietta in cui sollevo l’eccezione; memorietta che due o tre giorni prima dell’udienza deposito in cancelleria.

Viene, poi, l’udienza e io chiedo al giudice licenza di proporre la questione preliminare concernente la nullità (art. 491 co. 1): sì, è vero, la questione è stata avanzata nella memoria, però ciò non basta: il principio dell’oralità vuole che la sua esistenza venga palesata oralmente (forse che l’istanza non può, nella congerie di carte processuali che infoltiscono sempre di più i fascicoli del dibattimento e del P.M., (v. sub 9) sfuggire all’attenzione di una parte?)

Il giudice mi concede la parola ed io faccio del mio meglio per spiegare le ragioni che confortano l’istanza. Parla il P.M., che mi dà torto; il giudice si ritira in camera di consiglio e, quando esce, anche lui mi dà torto (v. nota 10): è andata male. Ma non tutto è stato inutile: il P.M., forse apprezzando il calore e l’impegno con cui mi sono battuto, mi dà  una mano; e, quando faccio, nell’esame dell’imputato, risultare il suo stato di tossicodipendenza, è lui stesso a proporre un rinvio per acquisire dal carcere la cartella clinica (la cui lettura permetterebbe di controllare lo stato di tossicodipendenza dell’imputato) (v. sub 11). Il tribunale rinvia ed il resto è cosa di ordinaria amministrazione: la causa si sa come andrà a finire. L’unico punto oscuro è se risulterà effettivamente dalla cartella clinica la tossicodipendenza del Sai. Tra l’udienza di rinvio e la nuova udienza vado a controllare la cosa: la tossicodipendenza risulta e io per cautela chiedo copia della cartella. All’udienza di rinvio è sempre il P.M. (che ha preso a benvolere le sorti del Sai: quanto sono misteriosi e imprevedibili i meccanismi psicologici che spingono un magistrato ad alzare il pollice o ad abbassarlo inesorabilmente!) a chiedere il minimo della pena e le attenuanti generiche.

A questo punto, parlo solo lo stretto necessario: strafare sarebbe controproducente. Quando il tribunale, tornato da una (breve) camera di consiglio, legge il dispositivo (v. sub 12), posso rassicurare con eloquente mimica il Sai: non è andata bene, ma non è andata troppo male.

Comunque, l’appello va tentato; e mi annoto nell’agenda, al giorno 28.06.01, “andare in cancelleria, ufficio appelli, per leggere sentenza Sai”. Il difensore, infatti, non riceve nessun avviso dal cancelliere che la sentenza (voglio dire la sentenza completa, formata sia dal dispositivo che dalla motivazione) (v. sub 13) è stata depositata in cancelleria: deve essere lui a ricordarsi di andare al momento giusto in cancelleria (per leggersi la sentenza). Ma quando cadrà questo “momento giusto”? Cadrà quando si sarà esaurito il tempo che il giudice (che non ha ritenuto di “motivare” subito la sua decisione, secondo quella che per il co.1 art. 544 c.p.p. dovrebbe essere la regola, ma che nella pratica diventa l’eccezione) ha a sua disposizione per redigere la motivazione — tempo che normalmente è di 15 giorni (v. co.2 art. 544), ma che il giudice ha facoltà di prolungare fino a 90 giorni. Infatti esaurito il tempo lasciato al giudice per stendere al motivazione, si apre per la parte il tempo a lei concesso per proporre impugnazione. Tempo che è più o meno lungo a seconda della diversa difficoltà che la causa presenta — difficoltà a sua volta desunta un po’empiricamente dal legislatore dal fatto che il giudice abbia redatta la motivazione subito, o l’abbia redatta nei 15 giorni o infine si sia riservato un tempo maggiore di 15 giorni per redigerla (v. melius, l’art. 585 c.p.p.).

Nel mio caso il giudice, per fare la motivazione, si era riservato 30 giorni (clicchi lo studioso (A44) e guardi là dove si appunta la freccia 1), quindi io avevo a disposizione 45 giorni per impugnare. Io, se ben ricordo, impugnai sia la sentenza che la ordinanza (V. art. 586 c.p.p.) (v. nota 14) . Comunque certamente redassi e depositai un unico atto di impugnazione. Poi, non mi restò che aspettare il decreto di citazione a comparire davanti alla Corte di Appello. Il decreto mi venne notificato “soli” 6, 7 mesi dopo la sentenza di primo grado: la Corte di solito è più lenta, nel caso si era mossa in fretta (tutto è relativo), perché l’imputato era detenuto: egli avrebbe potuto avere ragione e non sarebbe stato né bello né giusto che tale ragione gli venisse riconosciuta quando già avesse espiata in carcere quasi tutta la pena. Lo studioso può vedere un decreto di citazione in appello (art. 601 c.p.p.) cliccando (A47).

Può vedere poi un avviso d’udienza in Cassazione (art. 610 co.5 c.p.p.) per confrontarlo con il decreto di cui si è detto ora, cliccando (A48).

 

 

Note a quarta esperienza

1) Vedi l’art. 185 c.p.p., che recita, nel suo secondo comma: “Il giudice che dichiara la nullità di un atto ne dispone la rinnovazione”; e, nel suo terzo comma: “La dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato e al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo”.

2) Ciò che non impedisce all’A.G. di procedere oltre nel giudizio; infatti per il c.p.p. art. 66 “L’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità non pregiudica il compimento di alcun atto da parte dell’autorità procedente, quando sia certa l’identità fisica della persona”.

3) Clicca (A41) e guarda là dove, nella prima facciata, si appunta la freccia 1.

4) L’art. 164 c.p.p. recita: “La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli artt. 156 e 613 comma 2, c.p.p.”.
Il co. 1dell’art. 156 recita: “Le notificazioni all’imputato detenuto sono eseguite nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona”.

5) E ciò per l’intuitiva ragione che i motivi, che rendevano il 01.01.2001 opportuna l’elezione di domicilio (metti che Sai conducesse vita vagabonda e sentisse l’esigenza di un porto sicuro in cui le notifiche a lui fatte potessero approdare), una volta che Sai è detenuto, presumibilmente vengono a mancare (infatti, una volta detenuto, il modo più sicuro per Sai di ricevere le notifiche è che queste gli vengano fatte in carcere).

6) E infatti il detenuto può ben avere interesse che le notifiche siano fatte putacaso (ed è il caso più ovvio e più frequente) al difensore: forse che da una notifica non decorrono spesso dei termini perentori ma utili per il compimento di atti rilevantissimi (ad esempio, i termini previsti dagli artt. 446 co.1, 458 co.1) ? Forse che il compimento di tali atti in pratica non è eseguito dal difensore? E, allora, perché impedire al detenuto di evitare giri viziosi facendo pervenire subito la notifica al suo difensore?!

7) Vedi art. 171 lett.d, c.p.p., secondo cui “la notificazione è nulla se sono violate le disposizioni circa la persona a cui deve essere consegnata la copia”.

8) Anche se il decreto di citazione si situa nel tempo prima dell’atto (nullo) di notifica. Ciò è pacifico nonostante che, mentre un preciso articolo del codice (l’art. 185 c.p.p.) stabilisce espressamente che “la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo”, nessun articolo del codice stabilisce la nullità di quelli antecedenti (all’atto dichiarato nullo).
Ma la nullità dell’atto antecedente, pur nel silenzio della legge, è dettata dal buon senso: facciamo mente locale alla fattispecie in esame: è chiaro che rinotificare il 07.05.01 un decreto che cita a comparire per il 07.05.01 (tale era appunto la data indicata nel decreto, la cui notifica era, secondo me, nulla) sarebbe stato assurdo, dal momento che tale data, per chi ricevesse la notifica sarebbe già inevitabilmente trascorsa.
Vero è che la soluzione più lineare del caso avrebbe voluto che il giudice dell’udienza (senza rimettere gli atti al GIP) semplicemente stabilisse una nuova udienza, dando all’imputato un termine per richiedere il giudizio abbreviato. Ma tale soluzione sarebbe stata troppo semplice e lineare per essere adottata dal nostro (farraginoso) ordinamento processuale, il quale vuole (o almeno viene interpretato come se volesse) che, quando risulta nulla la notifica di un decreto di citazione, gli atti vengano rimessi all’autorità che prima li aveva emessi perché li rinnovi.

Vi era un altro problema che la causa avrebbe potuto presentare, una volta ritenuta la nullità della notifica; ed era questo: la comparizione dell’imputato (o la sua rinuncia a comparire) non avrebbe avuto l’effetto di sanare la nullità? Tale problema avrebbe tratto la sua (apparente) validità dal disposto dell’art. 184 c.p.p., secondo cui “la nullità di una citazione o di un avviso ovvero delle relative comunicazioni e notificazioni è sanata se la parte interessata è comparsa o ha rinunciato a comparire”. Senonché tale disposizione è un corollario del principio processuale (espressamente dichiarato nel C.P.C., però e non nel C.P.P.) che il raggiungimento dello scopo di un atto ne sana la nullità.
Di conseguenza, era da ritenersi, sì, che la comparizione dell’imputato —dimostrando che, comunque sia, lo scopo di informarlo dell’udienza era stato raggiunto (se non dalla notifica irregolare dell’atto, in qualche altra maniera) -sanava la nullità di quella parte dell’atto che aveva la funzione di informare il notificando dell’udienza; però era anche da ritenersi che essa (id est la comparizione dell’imputato) non sanava la nullità di quella parte dell’atto che aveva la funzione di “dar termine” al notificando per presentare la richiesta di abbreviato. Debbo dire, però, che, nella causa oggetto del nostro studio, il problema ora accennato (cioè il problema della sanatoria della nullità in seguito alla comparizione dell’imputato) neanche si pose.

9) Ma, a proposito, in quale dei due fascicoli l’istanza veniva a trovarsi? Nel fascicolo del dibattimento (non in quello del P.M.), non c’è da dubitarne; anche se, sul punto, il codice non dispone espressamente (neanche nell’art. 515 c.p.p.).

10) Cliccando (A42) lo studioso potrà vedere il verbale di dibattimento in cui l’ordinanza de qua fu (come vuole l’art. 481 c.p.p.) riprodotta sotto dettatura (vedi terza pagina). E potrà rilevare che essa non rispondeva per nulla alle argomentazioni della difesa (come sintetizzate nelle precedenti note, 5 e 6). E pertanto contro di essa io proposi appello (naturalmente insieme a quello contro la sentenza — V. art. 586 c.p.p.). Forse sbagliai (ne riparleremo nella successiva nota 14).

11) Cosa questa che, se accertata, avrebbe giustificata la con?gurazione nei fatti della ipotesi attenuata di cui all’art. 73 c.5 D.P.R. 309/1990. Che in effetti venne poi ritenuta dal giudice; e per la motivazione da questo addotta lo studioso clicchi(A43) e guardi (in terza pagina) dove indica la freccia 6.

12) Per leggere tale dispositivo lo studioso clicchi (A44). Noterà che mentre il decreto del GIP (clicchi A41) dispone per il giudizio immediato nei riguardi di tre imputati, la sentenza (nel suo dispositivo) fa riferimento solo a un imputato, il Sai: e la sparizione degli altri due imputati come si spiega? Con una dimenticanza del giudice? No, si spiega col fatto che essi, prof1ttando della possibilità loro offerta dall’art. 458, avevano chiesto e ottenuto il “giudizio abbreviato”: di conseguenza, la competenza a decidere la loro sorte era tornata al GIP; ma, si badi, non allo stesso GIP che li aveva rinviati davanti al tribunale, dato che questi col fatto di aver dichiarato l’evidenza della prova della loro colpevolezza, aveva manifestato “il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione “(sia pure non “indebitamente”, per cui, non era ricusabile ai sensi dell’art. 37 — però anche se non era ricusabile era pur sempre diventato “incompatibile”, ai sensi dell’art. 34, al “giudizio abbreviato”).
A questo punto lo studioso clicchi (A32) e vedrà il giudice, che ha disposto il rinvio, chiedere al capo del suo ufficio, di nominare ecc. ecc.

13) Cliccando (A43) lo studioso potrà vedere la sentenza di condanna di Sai. Purtroppo non siamo riusciti a recuperare una sua pagina; ma lo studioso che voglia vedere una sentenza completa potrà cliccare (A45): vi vedrà evidenziati da frecce quelli che per l’art. 546 c.p.p. sono i requisiti di una sentenza. E precisamente: la freccia 1 evidenzia il requisito (preteso dall’art. 546 c.p.p., sub a); la freccia 2, quello sub b; la freccia 3, quello sub c; la freccia 4, quello sub d; la freccia 5, quello sub e; la freccia 7, quello sub f e la freccia 8, quello sub g.

14) Anche se forse nel caso mi sarei potuto limitare a impugnare la sola sentenza. Infatti la nullità del decreto di citazione, avendola io tempestivamente sollevata, rendeva (poco rilevando che l’eccezione mi fosse stata rigettata) nulla (per il 1° co. art. 185 c.p.p.) la sentenza. Così mi pare almeno: che ne dice chi mi legge?
Lo studioso può vedere come si presenta un atto di impugnazione cliccando (A46).